103 impiegate della società Telstra in Australia hanno subito violenza domestica. Sì, a subire violenza, in Australia, come in Italia, sono le colleghe d’ufficio, le dirigenti delle aziende, le mogli, le nubili, le disoccupate, le casalinghe, le separate, le studentesse. Sono, siamo, tutte noi. Secondo l’ultimo rapporto Istat “La violenza contro le donne, dentro e fuori la famiglia” (giugno 2015), sono quasi sette milioni le Italiane tra i 16 e i 70 anni che hanno subito violenza nel corso della vita. L’elenco delle violenze che noi donne subiamo in Italia, le australiane in Australia, le americane in America e così via, è illeggibile per il male che fa. Il rapporto Istat non prova neanche a catalogare delle cause: solo degli effetti. Impossibile provare a spiegare perché l’uomo che dovrebbe amarti o che dice di averti amata abusa di te.
Alcune muoiono e finiscono sui giornali, ma la maggior parte rimane viva. E, come nel caso delle 103 impiegate della Telstra, rimanere viva può anche voler dire andare a lavorare. Avere un lavoro è un fatto prezioso: dà almeno una remota possibilità di indipendenza economica da chi ti vuol male. Oggi in Italia il 40% delle donne che hanno subito violenza lavora. Ma avere un lavoro vuole anche dire dover nascondere ogni giorno i lividi che si hanno dentro e fuori, vivendo nel terrore di perderlo, quel lavoro: per le assenze, per le mancanze, per la pressione psicologica. Subire violenza è infatti un altro dei tabù, un altro degli stigmi che ci siamo regalati in questo millennio.
Ma da qualche parte c’è chi sta provando a vedere la realtà e a mettersi in movimento per cambiarla. Si chiama “Fare la nostra parte” il rapporto rilasciato ieri in Australia da “Male Champions of Change”: un’associazione di aziende e di manager nata nel 2010 dietro l’impulso dell’allora ministra australiana per la Discriminazione Sessuale, Elizabeth Broderick, e che comprende oggi organizzazioni come Citi, Goldman Sachs, Qantas, Deloitte, KPMG, Telstra, McKinsey e la Banca del Commonwealth, per un totale di circa 600.000 dipendenti. Nel rapporto, le aziende concordano nel garantire periodi di congedo pagato per problemi di violenza domestica. Nel caso della Telstra, che ha iniziato nel 2014 con 10 giorni all’anno, il congedo è arrivato oggi a 20 giorni all’anno e ha consentito a 103 donne di trovare aiuto.
I sindacati australiani hanno proposto al governo di trasformare questa iniziativa in legge, ma la Ministra per il Lavoro e per le Donne, Michaelia Cash, ha obiettato che una scelta di questo tipo potrebbe tramutarsi in un’ulteriore causa di discriminazione nell’assumere le donne.
E in Italia? Per una volta siamo un passo avanti. L‘articolo 24 del D.Lgs 80/2015, il cosiddetto Jobs Act, prevede un congedo di 3 mesi “La dipendente di datore di lavoro pubblico o privato, con esclusione del lavoro domestico, inserita nei percorsi di protezione relativi alla violenza di genere, debitamente certificati dai servizi sociali del comune di residenza o dai centri antiviolenza o dalle case rifugio, ha il diritto di astenersi dal lavoro per motivi connessi al suddettopercorso di protezione per un periodo massimo di tre mesi”. La legge prevede misure di tutela anche per le lavoratrici che abbiano rapporti di collaborazione coordinata e continuativa (sempre per un massimo di tre mesi). Il congedo può essere usufruito su base oraria o giornaliera nell’arco di tempo di tre anni e prevede la retribuzione pari all’ultima percepita (mentr eil trattamento previdenziale è quello della maternità). In caso di necessità la lavoratrice può anche chiedere la trasformazione del tempo pieno in tempo parziale, per poi tornare al tempo pieno una volta superato il periodo di difficoltà. Con la legge di stbilità in approvazione al Senato il congedo di tre mesi è riconosciuto anche per le lavoratrici autonome.
La legge c’è, anche se è ancora troppo presto per valutarne gli effetti. Le aziende, poi, potrebbero fare la loro aprte anche creando programmi interni di formazione e di supporto per affrontare il problema. In alcune regioni esistono già degli sportelli itineranti di sensibilizzazione organizzati dalle Asl locali e ospitati sui posti di lavoro. BAsta non dimenticare, che una di quelle donne può essere seduta accanto a noi.