Maternità può far rima con depressione

neonatoIl lato oscuro della maternità è sempre meno un tabu. O forse no? Quanto ancora siamo legati a un’immagine idealizzata della gravidanza e dell’essere madre che poco hanno a che fare con la realtà? Sempre meno, a parole, anche se nei fatti i pregiudizi dell’ideale fanno fatica a lasciar spazio alle mille sfaccettature della vita reale. E allora, per esempio, non è più un segreto quello che chiamano baby blues, quel senso di svuotamento, tristezza e malinconia che sperimentano le neomamme 3-4 giorni dopo il parto e che ha il suo termine in 10-15 giorni dopo. Proprio quando tutti si aspettano che una mamma si sciolga in tenerezza e amore del suo piccolo bimbo. E quando, invece, ci sono momenti in cui si ha solo voglia di piangere e ci si sente terribilmente in colpa per questo. Ecco, se magari in tutti i corsi pre-parto spiegassero anche questo, oltre alle meraviglie del parto naturale magari la strada per alcune neomamme partirebbe un po’ più in discesa.

Ma se il baby blues è un fenomeno transitorio e di breve durata, ben altra cosa è la depressione post-partum, anche se spesso le due cose vengono confuse, anche dalle neomamme. La depressione è una malattia e come tale va trattata. E’ un disturbo psichiatrico molto diffuso e in crescita nella popolazione, ma è anche uno di quelli meno trattati e diagnosticati con ritardo. Quando la depressione colpisce la mamma di un neonato, il rischio è duplice perché oltre alla salute della mamma è in pericolo quella del bambino, che rischia di non essere nutrito e curato adeguatamente nei delicati primi mesi e anni della sua vita.

Diventare madre è una rivoluzione, in quanto tale può essere esaltante e gioiosa o disastrosa e distruttiva. O, più spesso, entrambe le cose a seconda dei momenti. In un momento di fragilità come questo, la depressione può essere davvero rischiosa. Perché non si tratta di una giornata no, o di qualche giorno di tristezza. Ha sintomi profondi e prolungati nel tempo, non si prova più alcun tipo di piacere anche con attività che prima erano interessanti, l’umore è irritabile o sempre depresso, intervengono stanchezza, astenia, pensieri negativi e perdita di senso.
woman-358767_960_720

Qualche giorno fa in un convegno Franca Aceti, responsabile dell’Unità di Igiene mentale e Relazioni affettive nel post partum dell’Università Policlinico Umberto I di Roma ha spiegato che “la depressione ‘post partum’ inizia in realtà prima della gravidanza e ne sono colpite almeno 2 donne su 10. Le radici del malessere sono infatti da ricercare già durante o prima della gestazione e all’origine, nella metà dei casi, ci sono problemi familiari”. Per una donna che magari ne ha già sofferto in passato o che ha avuto a sua volta una madre malata di depressione è più facile che la malattia possa insorgere dopo la nascita di un figlio. “Il 50% delle mamme depresse – spiega Aceti – hanno avuto a loro volta madri depresse e c’è una grossa ricaduta sul benessere psicofisico dei figli, che vanno incontro a depressione con una prevalenza 3-4 volte superiore agli altri”.

Gli altri fattori di rischio oltre alla familiarità sono la troppo giovane età della gravidanza, la conflittualità di coppia, i problemi economici, la mancanza di rete sociale. La depressione molto spesso si manifesta in gravidanza, ma la diagnosi è difficile: quanto è facile nella nostra società ammettere di essere depresse proprio quando si aspetta un figlio, “il momento più bello per ogni donna”?. E invece proprio un intervento precoce potrebbe essere decisivo “anche perché curare il problema dopo la nascita del bimbo diventa più difficile, per mancanza di tempo, acuita anche dallo stress del parto e dalla fatica fisica dei primi mesi della maternità”, sottolinea Gaetano Pannitteri, responsabile per il Policlinico Umberto I del progetto Bollino Rosa, realizzato in collaborazione con l’Osservatorio nazionale sulla Salute della Donna (Onda).

Non c’è altra strada, dunque, se non quella di alzare il velo e guardare la realtà e le difficoltà in faccia, senza rischiare di diventare vittime del pregiudizio. E quella di curare una malattia che può danneggiare per sempre la vita di una donna, di suo figlio e di chi sta loro intorno.