A diciotto anni, quando gli anni novanta ancora aspettavano il primo album dei Radiohead, l’adolescenza passava come una grattugia. Qualcuno aveva esagerato, poi uno era morto, un’altra aveva subito violenza, e ancora tante altre cose che non dirò e che sono sepolte e che devono rimanere tali. Molto prima, a diciotto anni, Giorgio Vizzardelli, classe 1922, è stato l’ergastolano più giovane della storia d’Italia. Ossessionato dalla figura di Al Capone, a quindici anni tentava l’emulazione del mito cominciando a distillare liquori di nascosto nella cantina di casa. Due anni dopo viene arrestato per aver ucciso cinque uomini in poco più di diciotto mesi, uno di questi con un colpo d’ascia, suggestionato dall’omicidio di Raskol’nikov, protagonista di Delitto e Castigo.
Questo episodio l’ho raccontato a un amico, padre di di due figli maschi, uno adolescente, l’altro alla prima pubertà, allarmato dai “luoghi oscuri del web che condizionano negativamente i ragazzi”. Non sono le chat o i social network, il “luogo oscuro” è l’adolescenza, e quando la vicequestore della Polizia Postale di Milano incita i genitori a controllare lo smartphone dei figli per “tutela e prevenzione”, credo che colga solo una parte della questione. Sicuramente gli adolescenti devono essere protetti dagli altri e dal male che agli altri possono arrecare. Se poi il controllo degli smartphone sia la strada giusta, proprio non so dire.
Sicuramente ronzano nelle orecchie le frasi di attonita inconsapevolezza e di ferma difesa che accompagnano le cronache di un qualche delitto. “E’ sempre stato un ragazzo buono” è la reazione legittima di chi ha fatto bene, certo che questo potesse proteggere da ogni male. Per gli altri invece è una confessione di bestialità. Il genitore mostro che difende il figlio sadico, un momento di rassicurazione collettiva. Quali orribili famiglie possono covare giovani e adolescenti tanto brutali? “Era nato la mattina presto, l’11 settembre 1981. Come nel caso di suo fratello, io e Tom avevamo scelto per lui il nome di un poeta, lo scrittore gallese Dylan Thomas”, racconta così Sue Klebold, madre di Dylan, uno dei due adolescenti autori della strage di Columbine. Un mostro lei e la sua famiglia?
Sue, a distanza di diciassette anni da quell’orrore, ha scritto un libro, Mio figlio, la testimonianza di una quotidianità infranta dall’uragano. Terrificante e necessario, il racconto di Sue. Chi lo affronta tenta di comprendere come il male possa trasferirsi dalle radici ai frutti. Spera di individuare errori educativi, di deplorare i silenzi e la disattenzione, di deprecare la famiglia che ha covato e cresciuto colui che, di storia in storia, è omicida, stupratore, terrorista, sadico, bullo. Ho cercato un motivo per sentirmi migliore di Sue e suo marito Tom, per poterli condannare. Era necessario perché se genitori come quelli sono innocenti, nessuno di noi è al sicuro. Eppure niente di tutto questo è stato possibile.
Sue e Tom sono i miei genitori, sono la mia famiglia. Io sono Tom, sono Sue e quando lei scrive, parlando del figlio assassino e suicida, “gli chiederei di perdonarmi perché non avevo capito quali pensieri lo tormentavano”, penso che tutto quello che abbiamo voluto accantonare della nostra adolescenza possa diventare una zona franca fra noi e i nostri figli. Spogliarsi delle certezze e delle prerogative genitoriali basterà a “prevenire non solo le tragedie, ma anche le sofferenze inconfessate di ogni bambino”?