Mio padre è stato un uomo moderno, classe 1930, medico e alpinista, amante dei viaggi e dell’arte figurativa, frugale e pragmatico. Ha interpretato il suo ruolo in famiglia in maniera tradizionale, come aveva visto fare, senza farsi domande. Innamorato del lavoro, durante la settimana lo si vedeva poco, usciva presto e rientrava tardi. Nei fine settimana, la domenica era la giornata che dedicava alla famiglia, il sabato era in montagna. Io sono cresciuto soprattutto con mia madre, nello splendore femminile dei pomeriggi passati con lei e, quando era possibile, con mia zia e mia nonna.
A mio padre devo quello che quasi ogni figlio deve ai genitori e poi una casa piena di libri, la maestosa intimità con la montagna, la serena stabilità della mia infanzia e della mia adolescenza. Poi, devo anche a lui il mio modo di essere padre. Sì perché, io, che ho avuto molte meno certezze di lui, sono stato inquieto e volubile, e, da quando ho cominciato a desiderare di diventare padre, ho sempre immaginato qualcosa che mio padre non è stato.
Ho proceduto per mancanze. Il profumo di dopobarba la mattina che raccontava il suo passaggio qualche minuto prima del mio risveglio. L’aroma di caffè la sera e la luce che filtrava dal suo studio, quando mi coricavo. Quindi ho scelto la presenza, l’irragionevole presenza, nonostante il lavoro e le cose da fare. La frustrazione continua di una presenza desiderata ma non compiuta, a brandelli sì, ma tutti conquistati. Ho scelto di essere labbra che baciano, braccia che stringono, di chiacchierare di Winx e di conoscere tutti i nomi dei peluche di mia figlia.
Eppure oggi mi accorgo che, seppur in maniera differente, mio padre e io abbiamo tentato la stessa impresa, proteggere e rendere liberi, come se fosse la stessa cosa. Essere genitori di adulti e futuri adulti, che guardandosi indietro potessero trovare in qualsiasi momento la stessa, incondizionata, protezione. Senza saperlo, entrambi abbiamo solo inseguito un desiderio semplice, quello dei più, essere genitori, buoni genitori.