Tra le credenze che ruotano intorno al mondo dell’adozione, una delle più diffuse è il pensiero che adottare un bambino piccolo, meglio se neonato, semplifichi la vita della nuova famiglia. Così non ha ricordi, lo cresci come vuoi, impara facilmente la lingua…
Le persone, quando aspettavo che arrivassero le mie figlie, avevano sempre la stessa reazione appena ne scoprivano le età (7 e 4 anni): “Così grandi? Ma non potevano dartele più piccole?”.
È indubbio che relazionarsi all’inizio con un bambino più piccolo sia più immediato e semplice, dato che ciò di cui ha bisogno sono cure e attenzioni. Il bambino più grandicello invece, con un proprio vissuto e una personalità già formata, richiede da parte dei genitori un maggiore investimento iniziale nella relazione, che deve essere instaurata in modo delicato e graduale, conquistando la naturale diffidenza iniziale del bambino e superando eventuali difficoltà dovute alla differenza culturale e linguistica, se arriva da un Paese straniero.
Il fatto che il bambino molto piccolo non abbia ricordi viene visto nel pensiero comune come un fattore positivo, ma in realtà l’assenza di ricordi rappresenta per la persona adottata un enorme buco nero con cui fare i conti per il resto della vita. Spetta al genitore adottivo accompagnare il bambino nella scoperta e nell’elaborazione della sua storia, non come si faceva solitamente nel passato con una rivelazione improvvisa e dirompente, ma creando invece un racconto che lo accompagni fin da piccolissimo e che cresca con il bambino, aiutandolo a integrare e a prendere consapevolezza del prima e del dopo l’evento adozione.
Il rapporto con il passato di un bambino adottato in età più avanzata è naturalmente diverso: ha dei ricordi, che inizia a condividere con i genitori quando sente di potersi fidare. È consapevole di quanto è successo prima e dopo l’adozione e questo può favorirlo nella relazione con le origini. La storia viene costruita insieme, ma il maggiore contributo sul passato viene dal figlio e dal suo racconto.
Difficile per un bambino adottato piccolissimo, e che ha conosciuto solo i suoi genitori adottivi, immaginare l’esistenza di una mamma precedente che non ha mai visto, di cui non conosce il volto, né il nome. Difficile immaginare di provenire da un Paese lontano, che non ha mai conosciuto.
Le mie amiche che hanno adottato bambini di pochi mesi che oggi hanno cinque o sei anni, e quindi iniziano solo ora ad acquisire consapevolezza di cosa significhi essere adottati, raccontano sia della fatica di questi figli a integrare la parte precedente l’adozione, sia specularmente della loro difficoltà emotiva di genitori nel vedere il dolore e la confusione dei bambini quando capiscono di essere stati abbandonati. A volte i bambini nel sentire il racconto della loro storia chiedono di saltare la parte iniziale, oppure non sembrano apparentemente interessati all’ascolto. Lavoro difficile per loro, ma indispensabile per poter crescere e diventare adulti il più possibile consapevoli ed equilibrati.
Una cara amica, parlando della sua bambina che ora ha 5 anni ed è stata adottata a pochi mesi, racconta: “Mia figlia non vuole parlare del prima perché non vuole far soffrire noi. Lei alla mamma dell’Etiopia pensa sempre, le provoca dolore, ma a noi non dice niente perché ha paura di farci soffrire. O, se ne parla, lo fa riferendosi ad altri bambini. Ci sono poi i ricordi che cerca di costruirsi con la sua fantasia: inventa cibi mangiati, persone incontrate, amici lasciati… deve riempire il vuoto e dare senso al suo periodo lì. Per non parlare dei pensieri rispetto a questa mamma e questo papà etiopi di cui non sa niente. Da un lato c’è la curiosità di conoscere il suo paese dicendo che vuole tornarci ma, nello stesso tempo, la paura di conoscerlo davvero: così se si imbatte in immagini dell’Etiopia non le guarda perché fa male. E poi ci sono le domande degli altri a cui lei non sa rispondere: perché sei stata adottata? Ma la tua mamma “vera” dov’è? E, dall’altro lato, c’è la velocità con cui ha imparato a usare la famiglia etiope come termine di paragone per le sue piccole vendette: è capitato che la sgridassi e che mi dicesse che voleva tornare in Etiopia perché la sua mamma le avrebbe fatto fare quello che voleva. L’altro giorno ha detto: in che famiglia di matti sono capitata? La famiglia dell’Etiopia non era così!!”