Io lo ricordo, il giorno in cui sono andata a dare le dimissioni all’ispettorato del lavoro. Era maggio: il giorno prima mio figlio Luca aveva compiuto un anno. C’era il sole, e insieme agli avvocati della mia società, che mi “scortavano”, abbiamo deciso di fare una bella passeggiata. Lasciavo un lavoro che avevo amato, un’azienda di cui mi ero sentita parte – come è sempre stato, in ogni azienda in cui ho lavorato. Lasciavo con il sollievo di chi ha risolto, di chi non ha visto alternative, ma anche di chi ha in testa e nel cuore dei progetti che disegnano già un futuro. Ma lasciavo anche con la tranquillità di chi in casa ha un secondo reddito e al suo fianco un compagno e degli amici che ti convincono che no: non sei tu ad aver fallito.
Io, che non ricordo mai niente, ricordo benissimo il foglio su cui ho sottoscritto che sì, le dimissioni erano volontarie e che no, nessuno mi stava obbligando. Sì: avevo una bambina di quattro anni e un bambino di uno, e stavo “liberamente” scegliendo di diventare una disoccupata.
Il 78% delle dimissioni convalidate dall’ispettorato del lavoro nel 2016 sono state di donne con figli. Di queste, quasi la metà ha detto apertamente che il problema era proprio l’impossibilità di tenere insieme tutto. Chi ha indicato che “mancano i nonni”, chi che il figlio non è stato accettato al nido, chi che non riesce a sostenere i costi “dell’assistenza del neonato”. Nessuna ha potuto scrivere, però, della tristezza, della solitudine e del dolore che rinunciare al lavoro ha significato per lei. Nessuna ha avuto, su quel foglio di dimissioni, la possibilità di raccontare delle situazioni, dei commenti e delle azioni che l’hanno spinta, un passo alla volta, fino alla porta.
Come quella madre di Nuoro che aveva chiesto di saltare la pausa pranzo per poter uscire alle 19.30, e poter così lasciare il bambino al nido fino a quell’ora: l’unico modo che aveva per riuscire a lavorare. La possibilità le è stata negata, “per non creare un precedente” e lei ha dovuto dimettersi.
Il commento dell’impiegata dell’azienda alla sindacalista che seguiva il caso è stato: “Era proprio necessario farsi un figlio? Si assuma la responsabilità, se non può permettersi una tata, lasci il lavoro”. Semplice, no?
Il caso, la lettera alla redazione:
Letizia: “Cara Alley, non raccontiamoci storie sulla maternità”