Dopo solo un’ora di sonno vengo svegliata da una chiamata del mio capo inglese: “Come ti senti?”. Bonfonchio qualcosa cercando di sembrare distaccata, e lui risponde ridendo a mezzo: “Tranquilla comunque, non ho nessuna intenzione di licenziarti”. Sono le ore 7.30 del 24 giugno 2016, giorno dopo il referendum sulla Brexit. Come molti altri, avevo passato la notte in bianco a seguire con angoscia crescente i risultati, distretto per distretto, della decisione del popolo britannico.
Per me, come per il mezzo milione di connazionali e gli oltre 3 milioni di cittadini europei residenti in UK[1], sono stati mesi di stupore misto a rabbia. Sono qui in Inghilterra da 14 anni, quasi metà della mia vita. Ho fatto tutto il mio percorso universitario in questo paese, ho ottenuto una borsa di studio del governo inglese per il mio PhD, ho trovato il primo lavoro e pagato le mie prime tasse qui, e, ironia delle ironie, nel 2016 avevo anche cominciato a riempire la spessa pila di formulari per prendere la cittadinanzia inglese. E all’improvviso il 52% dei votanti mi ha ricordato che non sono che un’ospite in questo paese, e neanche particolarmente gradita.
Dopo il primo momento di scoramento emotivo, è cominciata l’incertezza. Mi sono ritrovata ad andare in ufficio e domandarmi: chissà chi dei miei colleghi avrà votato per la Brexit – ovvero contro gli immigrati come me – e chi invece avrà partecipato alle grandi manifestazioni pro-UE che si sono susseguite dopo il referendum? Ho avuto conversazioni surreali con amici che avevano votato Brexit ma che mi rassicuravano: non volevano io fossi espulsa dal loro paese. Il ragionamento ‘non quelli come te ma gli altri, gli immigrati che approfittano dei sussidi statali’ mi ha sempre lasciato un certo amaro in bocca. E se domani mi ammalassi e diventassi anche io un peso per le finanze pubbliche, mi vorrebbero ancora qui?
Ho immediatamente lasciato perdere la richiesta di nazionalità inglese, e cercato rassicurazioni da consolato e ambasciata, dai giornali, dai governi mentre nella mia vita quotidiana l’ombra della Brexit prendeva uno spessore inatteso. Per esempio, chiacchierando in Italiano per strada in centro a Londra con mia sorella, un inglese ci ha intimato in tono aggressivo di “tornare al nostro paese”. Ecco l’aumento del 41% di hate crimes[2] dopo il referendum, provato sulla mia pelle. E quando, in un incontro a Number 10 (di Downing Street, Londra. Residenza del Primo Ministro Britannico), ho osato raccontare questo episodio, ho trovato reazioni contrite ed imbarazzate. Come sempre in politica i numeri sulla carta e il confronto con l’esperienza vissuta sono cose diverse.
A meno di rivolte nella Camera dei Lords, entro il 7 marzo il governo di Theresa May avrà la delega per cominciare i due anni di negoziato di Brexit, invocando l’art. 50 del Trattato di Lisbona. Per la nostra comunità di Italiani in Gran Bretagna si aprirà una nuova fase in cui diventeremo mezzo milione di pedine sulla grande scacchiera del negoziato.
Ma la cosa che mi lascia più perplessa è che, anche se alla fine ci ‘permetteranno’ di restare, qualcosa si è incrinato. Svegliata dal mio lungo sonno durato 14 anni, in cui pensavo che essere Europea ed Italiana, e forse anche Inglese insieme, fosse possibile, ora so che, qui, per loro, sarò comunque prima e principalmente Italiana. Così sia. Sbadiglio, mi stropiccio gli occhi, bevo un caffé e comincio a guardarmi attorno per capire come in altri paesi, e in Italia in particolare, ci si possa adoperare affinchè nessuno debba essere strappato al suo sonno come lo sono stata io.
[1] I numeri degli italiani in Inghilterra non sono affidabili a causa del numero importante di non registrati all’AIRE.
[2] Crimidi d’odio, ovvero violenze perpetrate nei confronti di persone discriminate in base ad appartenenza vera o presunta ad un gruppo sociale, identificato sulla base, dell’etnia, della religione, dell’orientamento sessuale, dell’identità di genere o di particolari condizioni fisiche o psichiche.