Una coppia di amici è in partenza per il primo viaggio per conoscere i due fratellini a cui sono stati abbinati poco più di un mese fa. È successo tutto molto in fretta. Talmente in fretta che non hanno avuto neanche il tempo di organizzarsi, non solo mentalmente, che tanto è una causa persa in partenza vista la tempesta di emozioni che il viaggio comporta, ma neanche praticamente. Perché la destinazione è la Siberia, con tutti gli scenari che questo luogo richiama alla mente. Siamo in dicembre, lì non si scherza affatto, parliamo di -30 gradi! Mica ci si può andare con il cappottino milanese da ufficio… Tutto questo mi ha ricordato il primo viaggio con mio marito per conoscere le nostre figlie, nonostante la destinazione fosse totalmente opposta: Africa, Etiopia. Anche se poi ad accoglierci (in barba ai soliti scenari e cliché) abbiamo trovato la pioggia battente e costante e i nuvoloni neri della stagione delle piogge.
Ma il viaggio verso i nostri figli in realtà inizia molto prima di salire su un aereo, mesi, anzi anni prima. Ancora prima della consegna della disponibilità all’adozione al Tribunale dei Minori.
Comincia nella testa dei futuri genitori. Perché quel momento, quello del primo incontro, quello in cui per la prima volta gli sguardi si incroceranno viene immaginato e sognato centinaia di volte. Ogni volta con un’ambientazione diversa (dall’India al Sudamerica, passando per la Russia e i paesi africani e perché no? anche per il Belpaese, dove c’è sempre la possibilità di una chiamata per un’adozione nazionale), con bambini di età totalmente diversa (dal neonato al bambino in età scolare) perché tante sono le incognite durante il lungo periodo dell’attesa.
E oltre al lato romantico e fiabesco che la nostra immaginazione costruisce intorno a quell’attimo, a quel primo abbraccio, man mano che l’incontro si avvicina il dubbio e la paura conquistano sempre più spazio e quel figlio finoa a quel momento immaginato come una vaga figura dai colori e dall’età cangiante acquista sempre più corpo, fino ad assumere un volto preciso con l’abbinamento. E quella vaga sensazione di paura si concretizza in domande precise, che pesano come macigni: come reagirà il bambino? avrà paura? sarà stato preparato? e se piange? si lascerà abbracciare? riusciremo a comunicare?
E quando arriva il momento dell’incontro è pure peggio… Cosa mi metto? Io non sono una fissata con il look e le apparenze, ma ammetto di essere stata ore a pensarci: nero? no, troppo serioso. Look sportivo per sembrare una mamma più giovane? Metto gli orecchini? Una collana colorata e simpatica? O rischio di sembrare un lampadario… Il motivo era uno solo: volevo essere al massimo, come quelle mamme che si vedono negli spot televisivi: belle e rassicuranti al tempo stesso.
E anche i regali che avevamo acquistato per le bambine nei giorni precedenti il viaggio all’ultimo momento mi sembravano inadeguati, troppo banali. Eppure li avevamo scelti con cura e attenzione: non troppo grandi, non troppo esagerati, non troppi. Oggetti che avrebbero tenuto loro compagnia e alimentato il nostro ricordo nei mesi a venire.
Sono andata a rileggere quello che avevo scritto la notte prima di incontrare le mie figlie, ormai cinque anni e mezzo, fa sull’aereo diretto ad Addis Abeba. Eccolo: “Il più ormai è fatto. Ora siamo in volo, la notte è limpida, credo che stiamo sorvolando Assisi. C’è la luna piena, chissà se anche le bambine sono ancora sveglie… Chissà se sono emozionate per l’incontro di domani. Magari stanno chiacchierando con le loro amiche dell’istituto, immaginando come sarà, come saremo. Domani sarà il loro giorno: saranno le protagoniste, le principesse per qualche ora: vestiti della festa, scarpe, acconciatura ai capelli, regali, foto…
Domani ci incontreremo… Non mi sembra vero, scrivo perché ho bisogno di rendere tutto più reale. Vi piaceremo? Ci accetterete? Vi piaceranno i regali che abbiamo scelto per voi?”.