“Ma hanno imparato subito l’italiano?”. È una delle domande che più spesso mi sento fare riguardo all’inserimento in famiglia e nel contesto sociale delle mie figlie di origine etiope. Ma ciò che è davvero interessante, non è tanto in quanto tempo (comunque davvero minimo), ma come hanno imparato la nostra lingua, l’italiano.
Mia figlia maggiore è un caso a sé, è quella che tutti comunemente definiremmo come “portata per le lingue”. Io non ho altre spiegazioni se non quella di un misterioso dono innato. Lei, piccola bambina di sette anni, che parlava solo amarico (una lingua totalmente diversa, basti solo sapere che un semplice monosillabo come “no” si dice “aydellem”!) e qualche parola di inglese, sin dai primi giorni insieme, in Etiopia, ha compreso le nostre parole, tant’è che, nei momenti di difficoltà, veniva spudoratamente usata come interprete anche dagli altri genitori, che erano in viaggio con noi, per parlare con i loro bambini. Non ho mai capito come facesse, ma funzionava!
Altrettanto sorprendente è quello che è successo a mia figlia minore (che all’epoca aveva quattro anni) che, invece, ci ha messo un po’ di più ad utilizzare un italiano corretto per esprimersi. Si è alzata una mattina, dopo un mese che era in Italia, e dal nulla ha iniziato a parlare una lingua tutta sua, con frasi che dell’italiano avevano la cadenza e la costruzione sillabica, intervallate qua e là dalle singole parole che conosceva: “Mamma, appalacatà mirafadafa cinque, macatà mandarino?”. Il bello era che lei era davvero convinta di parlare italiano, quindi, con uno sforzo immane per rimanere seri, come se capissimo quello che diceva, le rispondevamo… a caso. Con sua grande soddisfazione. Questa fase è durata tre giorni, che abbiamo puntualmente registrato perché era davvero divertente. Dopo di che ha iniziato a parlare italiano. Con soggetto, verbo, predicato. Senza mai una regressione.
In questa quotidiana scalata all’italiano, ci sono stati e continuano ad esserci dei momenti di pura creatività, dei colpi di genio, secondo me, che, dopo “petaloso”, varrebbe la pena forse segnalare al vocabolario della Crusca.
Tra gli involontari neologismi da loro creati, uno dei primi è stato “la principensa”, che ho sempre orgogliosamente immaginato come la versione femminista e intellettuale delle eroine delle fiabe. E per restare in tema, la favola preferita di mia figlia è “la piccola mammiferaia”, che sembra più un incrocio tra i fratelli Grimm e “Il mondo di Quark”.
Un altro momento di alta poesia l’abbiamo toccato mentre, durante un lungo viaggio in macchina un paio di anni fa, su richiesta di mia figlia, cercavo di insegnare loro “Bella ciao” e ricantando la strofa nell’abitacolo a squarciagola risuonò: “Oh Parmigiano, portami via… oh bella ciao, bella ciao…”, cantata anche qualche giorno fa nella versione “Oh artigiano, portami via…”. Sempre per rimanere in tema canzoni, cantando l’imperdibile hit “Ballafrutta”, imparata a scuola, mia figlia si scatenava intonando: “Non puoi stare fermo, sarà disco Infermo!”.