
«La cultura è il terreno migliore, più alto, per costruire futuro, recupero e rinascita». Così il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in visita al carcere di Rebibbia a Roma, ha inaugurato il Giubileo dei detenuti: l’ultimo evento tematico dell’anno santo cattolico che, dal 12 al 14 dicembre, ha acceso i riflettori sulla «condizione totalmente inaccettabile» delle nostre carceri, come l’ha definita il presidente Mattarella. L’ultimo rapporto di Antigone fotografa una situazione al collasso: a fine giugno 2025, le carceri italiane ospitavano 62.728 persone, a fronte di una capienza regolamentare di 51.276 posti. Questo dato, già allarmante, peggiora se si considera che oltre 4.500 posti risultano di fatto inagibili: il tasso di affollamento medio nazionale schizza al 134,3%, ma con picchi che superano il 150% in 62 istituti e toccano vette del 190% in carceri come San Vittore a Milano e Regina Coeli a Roma. Nei numeri, ci sono le storie: quelle di chi il carcere lo vive ogni giorno. Ma che stentano a trovare voce. A restituirne il valore è la piattaforma editoriale Hyperlocal – che dal 2020 racconta le comunità, i luoghi simbolici e le scene, culturali e artistiche, dei quartieri di diverse città del mondo – con il progetto “Un mondo alla rovescia”: una mostra a cielo aperto, allestita nello spazio antistante la fermata metro di Rebibbia a Roma, composta da oltre 120 manifesti che raccolgono storie personali e collettive, volti, esperienze e attività legate al carcere di Rebibbia, con particolare attenzione al tema della rappresentazione dentro e fuori le sue mura.

«Non è il carcere che fa i detenuti, sono i detenuti che fanno il carcere»: le storie di Rebibbia, da Rebibbia
La mostra a cielo aperto nasce dalle storie raccolte in “Hyperlocal Rebibbia”, numero speciale del magazine curato dalla piattaforma editoriale e dedicato al polo penitenziario più grande d’Italia. Il risultato è il frutto soprattutto di un lavoro portato avanti all’interno del Nuovo Complesso, uno dei quattro istituti che compongono il polo di Rebibbia, insieme a un gruppo di diciassette detenuti che in due mesi di attività sono diventati parte integrante della redazione: Mohamed racconta di essere un calciatore fuori e dentro, che non desidera altro che giocare, eppure il campo e la partita in carcere sono tutt’altra cosa. Stefano conosce gli spiriti, «quelli fuori e quelli dentro», ma gli spiriti delle celle sono ancora diversi: a Rebibbia ha imparato a preferire quelli che una volta aveva intravisto tra i fiori. Alessandro scrive di sociologia delle carceri dall’interno, da detenuto, rendendolo l’unica persona a cui i detenuti dicono la verità. Ezio scrive che «Non è il carcere che fa i detenuti, sono i detenuti che fanno il carcere». Mentre Massimiliano ricorda che «Se non riesci a superare le cose, non puoi dire di aver vissuto». Per Stefano, come racconta, superare significa andare anche oltre i sogni: «Se ti sogni la libertà, finisce che prima o poi apri gli occhi e vedi le sbarre».
Ampliare il racconto e le rappresentazioni delle carceri
Il magazine sarà affisso eccezionalmente sia nel Nuovo Complesso che nei pressi della metro Rebibbia con 120 poster esposti su 20 tabelle metalliche. «Scegliamo di mettere il magazine in affissione nel quartiere che raccontiamo affinché le persone che ci donano la loro storia possano rivedersi» spiega Nicola Gerundino di Hyperlocal. I contenuti del magazine potranno così essere fruiti dall’intera comunità che popola il carcere di Rebibbia e da coloro che ne hanno contribuito alla realizzazione attraverso le attività progettuali attivate da Hyperlocal all’interno del penitenziario stesso. A valorizzare la profondità visiva e narrativa del progetto, una vasta redazione di fotografi, scrittrici e scrittori che hanno lavorato fianco a fianco con i detenuti, insieme a materiali d’archivio che ricostruiscono un ampio immaginario: gli scatti di Tano D’Amico e Angelo Turetta, le immagini dai set dei film “Fuori” di Mario Martone e “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani, i progetti architettonici di Sergio Lenci, le testimonianze delle compagnie teatrali attive in carcere come “Le Donne del Muro Alto”, fino alla corrispondenza della detenuta transgender Fernanda Farias De Albuquerque, da cui ha preso le mosse il romanzo “Princesa”. Attraverso testi, fotografie, interviste e contributi d’autore, il progetto invita a riflettere sul confine tra interno ed esterno, carcere e città, libertà e appartenenza alla comunità: «Passare la soglia di un penitenziario e spendere qualche ora al suo interno è un’esperienza importante, preziosa, fondamentale, che ogni persona dovrebbe fare – scrive Gerundino nell’articolo che apre “Hyperlocal Rebibbia” – Non tanto per toccare con mano le conseguenze che derivano dal commettere un reato, per essere atterriti o spaventati; ma perché, fin dalla notte dei tempi, ciò che non c’è è ciò che innesca la scintilla del pensiero. Il carcere è un luogo dove ogni forma di senso e rappresentazione che fa parte della quotidianità, della routine, si interrompe. Qui ogni gesto è una fonte di domande».

Un mondo alla rovescia, tra visibilità e invisibilità
Nelle storie, vive e sfaccettate, raccolte da Hyperlocal convive il paradosso: il carcere “gode” di una visibilità a intermittenza. A grandi momenti di attenzione se ne alternano altri di lungo silenzio. E, in questo, il carcere di Rebibbia somiglia al quartiere che lo ospita. Nelle pagine del magazine vengono ricordate le parole del comitato Mammut, dei quartieri Ponte Mammolo-Rebibbia, che sottolineano una forte somiglianza tra lo spazio “esterno” dei quartieri e quello “interno” dell’istituto penitenziario: «Due gemelli che abitano lo stesso grembo – scrive Gerundino, ricordando una conversazione con i membri del comitato – Simili per tanti aspetti, ma anche agli antipodi per altri: perché se da una parte l’invisibilità è vissuta da donne e uomini liberi, dall’altra la indossano uomini e donne che si trovano all’interno di un “mondo alla rovescia”, dove esistono convenzioni, abitudini e regole simili all’estero – ci si sveglia, si mangia, ci si lava, si legge, si fa sport, si lavora anche – ma rigide al tal punto da trasformarsi in qualcosa di totalmente diverso». Lo ricordano anche la scrittrice e regista Francesca D’Aloja, autrice de “Il sogno cattivo” e del docufilm “Piccoli ergastoli”, e Edoardo Albinati, scrittore Premio Strega che per trent’anni ha insegnato a Rebibbia, durante il talk “Prison as Narrative Subject” che ha presentato il progetto: «La quotidianità del carcere la puoi raccontare se ci sei dentro – sottolinea D’Aloja – Ho passato tanto tempo con tanti detenuti: nel ’97, con un piccolo registratore, li lasciavo parlare e da lì captavo le storie: i detenuti erano disponibili a essere raccontati. Si crea un equilibrio nei rapporti che comprendi strada facendo». Anche la scuola, in carcere, s’impara facendo perché, spiega Albinati, «La popolazione carceraria non è definibile in quanto tale: è composta da persone con storie e background diversi. Se la scuola funziona a Rebibbia, può funzionare ovunque. Se qualcosa rimane, allora vuol dire che si può fare».
“Le cose che non possiamo dimenticare”, la voce della memoria che chiama alla responsabilità
Insieme a “Un mondo alla rovescia”, un altro progetto restituisce voce e umanità a chi vive in carcere: “Le cose che non possiamo dimenticare”, dal 12 al 14 dicembre, trasforma l’ingresso della metro Rebibbia in un punto di contatto tra città e carcere, attraverso incontri, reading musicali, mostre e installazioni audiovisive. Cuore dell’iniziativa è l’opera audiovisiva monumentale di arte sociale di Angelo Bonello, tra i pionieri internazionali della Light Art Urbana: una grande croce LED alta sei metri che si accende all’ingresso della metro come un’apparizione inattesa. Non un simbolo religioso, ma una presenza viva nello spazio pubblico, capace di mettere in relazione il carcere e la città. «Questa croce non è un monumento alla fede, ma un varco aperto nello spazio urbano che mette in comunicazione il dentro e il fuori del carcere di Rebibbia – spiega l’artista e direttore artistico Angelo Bonello – Sulle sue superfici scorrono volti e parole che non chiedono indulgenza, ma solo ascolto, un taglio stretto nell’oscurità, attraverso cui i detenuti osservano il mondo e attraverso cui il mondo osserva loro». L’opera, infatti nasce da un lavoro corale: l’artista e il team hanno scelto di immergersi con empatia nella realtà di Rebibbia, lasciandosi attraversare dalle storie dei detenuti e di ex detenute. Le loro voci diventano immagini e parole che abitano la superficie della croce: volti, frammenti di memoria, mancanze e speranze restituiti alla comunità. Ogni testimonianza si fa domanda aperta per chi passa: «Che cosa non potremo mai dimenticare della nostra vita? E che cosa non dovremmo mai dimenticare, come società?». Interrogativi aperti che mettono in dialogo il “dentro” e il “fuori”, in uno spazio di confronto intimo che attraversa le mura e restituisce valore e dignità alle storie umane.
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