Aborto: per Medici del mondo diritto a rischio in Italia, mancano dati certi

Foto di Michele Lapini

Mancano dati certi e uniformi sull’interruzione volontaria di gravidanza in Italia e questo significa l’impossibilità di attuare politiche adeguate sul territorio, alimentando così disuguaglianze. L’assenza di dati, quindi, diventa la messa in atto di una politica di deterrenza. In occasione della Giornata internazionale sull’aborto sicuro (28 settembre) è stato presentato alla Camera il terzo rapporto annuale prodotto da Medici del mondo sul tema, “Aborto Senza Numeri”.

«Senza accesso a informazioni chiare il diritto alla salute e il diritto alla scelta restano solo sulla carta.  Nonostante l’Ivg rientri nei Lea, la relazione annuale del ministero della Salute sembra ormai una formalità, priva di reale capacità di monitoraggio o impulso al miglioramento». Non usa giri di parole Elisa Visconti, direttrice di Medici del mondo in Italia, una rete internazionale impegnata a garantire l’accesso alla salute alle persone più vulnerabili, denunciare le ingiustizie di cui sono vittime e promuovere il cambiamento sociale. Ha in carico 400 progetti, in oltre 70 Paesi del mondo.

I dati: la penisola è divisa

Il Veneto è la sola regione che ha sul sito dati accessibili in formato aperto, e dunque utilizzabili, e aggiornati all’anno precedente: obiezione al 66,6% (picchi 86% Venezia); IVG farmacologiche al 64% nel 2024; rete dei consultori carente (1 ogni 50.000 abitanti).

La Sardegna ha dati del 2022, quasi nulla sappiamo degli ultimi anni. Resta che ci sono 8 ospedali su 22 senza IVG e una crescita dell’aborto farmacologico che in alcune strutture è molto alta (all’ospedale di Alghero ha raggiunto l’88,7%).

In Molise le donne che riescono a interrompere la gravidanza usando la RU486 superano l’80%, con una rete consultoriale pressoché inesistente (1 ogni 66.000 abitanti). Anche qui, va detto, siamo fermi a una fotografia vecchia di quasi tre anni che vede sulle obiezioni un dato da record (90,9% ginecologi), appena prima della Sicilia che si attesta sull’81,5%.

Cosa significa l’assenza di dati

A cosa portino queste omissioni è sotto gli occhi di tutti. Visconti lo dice in una battuta: «Siamo davanti ad una precisa volontà politica di non fornire le informazioni in modo tempestivo, disaggregato, aperto e fruibile. Disuguaglianze nell’accesso a un diritto fondamentale, quello di decidere sul proprio corpo, di tutelare la propria salute fisica e mentale, di ricevere cure appropriate in ambienti sicuri e accoglienti, senza subire discriminazioni. L’OMS è chiara: garantire informazioni accurate è il primo passo per garantire aborti sicuri. In Italia, purtroppo, siamo ancora molto lontani da questo obiettivo».

Di ostacoli silenziosi le donne che decidono di praticare l’IVG fanno esperienza ogni giorno. A rendere ancora più grave l’inerzia della nostra politica è che il dpcm del 17 gennaio 2017 inserisce l’aborto tra i Livelli essenziali di assistenza (Lea), prestazioni che il Servizio sanitario nazionale è tenuto a garantire inderogabilmente, in maniera uniforme e senza discriminazioni, attraverso le regioni.

Centralissimo si fa allora l’aspetto del monitoraggio dei Lea che è verifica di accessibilità in tutti i territori. «Dovrebbe essere una garanzia per i cittadini, e un controllo del ministero della Salute sulle Regioni che, a fronte del finanziamento ricevuto dal livello centrale, devono garantire per i cittadini un minimo di prestazioni sul territorio», a spiegarlo nel dossier è il professor Marcello Crivellini, docente di Analisi e organizzazione di sistemi sanitari al Politecnico di Milano.

Le indagini di Medici del mondo sono un contributo prezioso, specie nello scenario attuale. Può essere utile incrociare il report del 2023 sull’Aborto farmacologico,  con la campagna The Impossible Pill  e con il dossier del 2024 Aborto a ostacoli per farsi un’idea più precisa della situazione e dei suoi effetti, che rischia di arrivare a negare alle donne il diritto di autodeterminazione.

L’aborto e il diritto alla salute

Che la salute e i diritti sessuali e riproduttivi (Sexual and reproductive health and rights – Srhr) rappresentino una componente essenziale del diritto alla salute è, del resto, un’affermazione inequivocabile. Promuovere i diritti sessuali e riproduttivi significa promuovere giustizia sociale, libertà, dignità, equità. L’aborto è salute. Ma c’è solo un modo affinché il diritto non resti lettera morta ed è far sì che il suo esercizio sia sicuro, tempestivo, accessibile, economicamente sostenibile e rispettoso delle donne.

«Negarlo o ostacolarlo equivale a negare un diritto umano. Il mancato accesso al diritto a un aborto sicuro e a cure abortive complete è un problema critico di salute pubblica e di diritti umani, con conseguenze tali da delineare un quadro di emergenza sanitaria. L’aborto non sicuro – si legge nel rapporto – è una delle principali cause di mortalità materna a livello globale. Su circa 121 milioni di gravidanze indesiderate che si verificano ogni anno nel mondo il 61% si conclude con un aborto1. Di questi, il 45% avviene in condizioni non sicure a causa dell’accesso limitato a servizi adeguati; l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) stima oltre 39 mila decessi e più di 7 milioni di ricoveri ospedalieri ogni anno a causa delle complicazioni di aborti non sicuri».

E un ministero che ritarda nella ostensione dei dati, che non offre numeri attendibili, che non monitora è certamente un ministero inadempiente.

Di Italia non ce n’è una sola: il nodo dei consultori

Ma torniamo sull’aborto farmacologico: «In direzione opposta rispetto alle indicazioni dell’Oms – si legge ancora – la maggior parte dei protocolli emanati nelle Regioni italiane centralizza la procedura farmacologica a livello delle strutture ospedaliere. Chi vuole abortire con la RU486 deve trovare un ospedale che offra il servizio, magari lontano da casa, e recarvisi 3 o 4 volte: per l’accettazione, per la prima pillola, poi per la seconda e infine per il controllo. Nel caso dell’aborto farmacologico, le disuguaglianze regionali e le difficoltà nell’accesso al servizio sono più che evidenti».

Sono i consultori il nervo scoperto. A cinquant’anni dalla loro istituzione il Paese è spaccato. Se ne contano circa 1800, lontanissimi dalla proporzione che la legge detterebbe (uno ogni 20 mila abitanti). Un’altra foto sfocata di una situazione frammentata e scomposta.

Dietro a regioni come l’Emilia-Romagna (72,9%), le Marche (66,3%), il Piemonte (62,5%) e l’Umbria (61,4%) o come la Provincia autonoma di Trento (76,6%) dove i consultori rilasciano un numero importante di certificati per l’IVG, ci sono le realtà del Sud Italia (29,1%) e delle isole (19,2%), dove le donne si rivolgono ancora per la maggior parte al servizio ostetrico-ginecologico.

«Oggi, dopo mezzo secolo – si legge – i consultori sono pochi, privi di risorse economiche e di personale. Già nel 2018-2019 l’indagine condotta dall’Istituto Superiore di Sanità denunciava la necessità di arginare il “progressivo e diffuso depauperamento delle sedi e delle equipe dei consultori familiari”, che costituiscono “un servizio unico per la tutela della salute della donna, del bambino e degli adolescenti”» (Aborto Senza Numeri).

L’obiezione di coscienza

Uno dei punti più discussi della legge 194 resta l’obiezione di coscienza. «Secondo la relazione del ministero della Salute, in Italia si è dichiarato/a obiettore/obiettrice il 60,7% dei ginecologi e delle ginecologhe nel 2022, in leggera diminuzione rispetto al 2021, quando era del 63,4%. La situazione però – spiega il rapporto – non è omogenea in tutto il Paese. In Valle d’Aosta è del 25%, poco più alta nella Provincia autonoma di Trento del 31,8%, ma raggiunge picchi del 90,9% in Molise e dell’81,5% in Sicilia».

E di medici obiettori si era occupata Alley agli inizi di questa estate, in un articolo che registrava però un qualche timido segnale in controtendenza e dava conto della legge varata dalla regione siciliana per limitarne il numero nelle strutture pubbliche.

Anche su questo fronte, tuttavia, ci muoviamo all’indietro. E’ di agosto la decisione del governo di impugnare quella norma innanzi alla Consulta che dovrà pronunciarsi su profili di incostituzionalità.

«È bene ricordare – precisa il lavoro di Medici del mondo – che le linee guida Oms del 2022 sull’aborto chiariscono che “gli Stati che consentono l’obiezione di coscienza devono organizzare il sistema sanitario e la fornitura di servizi in modo da garantire che l’esercizio effettivo della libertà del personale sanitario nel contesto lavorativo non impedisca alle persone di ottenere l’accesso a cure a cui hanno diritto in base alla legislazione”. Viene inoltre ribadito che “in caso la regolamentazione dell’obiezione di coscienza non rispetti, protegga e soddisfi i diritti di chi cerca di abortire, l’obiezione di coscienza nei servizi per l’Ivg diventa indifendibile”».

All’estero le cose non vanno meglio

Dare uno sguardo all’estero, addirittura peggiora le cose. Il rapporto “European Combined Srhr Ranking Atlas 2020-2023” sulle politiche europee in tema di salute sessuale e diritti riproduttivi, pone l’Italia al sedicesimo posto (su 44).

Ben più arretrata rispetto a Paesi come la Svezia, il Regno Unito, l’Olanda e la Francia per aspetti cruciali: limite temporale fissato a 12 settimane di gestazione; periodo di attesa obbligatoria di 7 giorni tra la prima visita e la procedura; obbligo di approvazione da parte dei genitori in caso di minori; centralizzazione delle cure abortive a livello di struttura sanitaria e personale medico con specialità in ginecologia/ostetricia; possibilità per il personale sanitario e non-sanitario di dichiararsi obiettore di coscienza; mancanza di informazioni autorevoli, accurate e facilmente accessibili fornite dalle autorità pubbliche.

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