Ci sono reati per i quali le leggi da sole non bastano. Servono anche forze dell’ordine, avvocati e magistrati con la voglia e la capacità di farle rispettare e di applicarle nel modo corretto. “In Italia non è ancora radicata una cultura basata sui diritti umani, che metta al centro l’esigenza di protezione della donna che chiede aiuto in una situazione di violenza da parte di un uomo”.
È molto severa Barbara Spinelli. Avvocata e attivista per i diritti umani, Spinelli è stata la promotrice, nel nostro Paese, dell’uso della parola femminicidio e anche una delle prime persone a parlare di “responsabilità di Stato” per l’inadeguatezza delle leggi e delle politiche italiane.
Nel 2013 il nostro Paese ha tentato di porre rimedio a questo ritardo con la legge sul contrasto della violenza di genere (decreto legge del 14 agosto 2013, n. 93).
Obiettivo raggiunto?La protezione effettiva delle donne vittime di violenza maschile resta, purtroppo, una meta ancora lontana da raggiungere. Nonostante la legislazione penale consentirebbe un’idonea protezione delle vittime di violenza che scelgono di denunciare, l’assenza di formazione professionale di forze dell’ordine e magistratura impedisce un’efficace applicazione delle norme.
Ma le leggi riuscirebbero a offrire un’adeguata prevenzione del fenomeno?
No. Il quadro giuridico resta ancora frammentario. Penso, ad esempio alla legge 154/2001 che ha introdotto l’ordine di allontanamento civile e che è però ancora poco conosciuta e ancor meno applicata. Più in generale, ritengo però che la prevenzione non dovrebbe essere affidata alla legge. Per questo esiste il Piano nazionale antiviolenza.
E questo funziona?
La cosiddetta “legge sul femminicidio” nel 2013 aveva previsto l’adozione del “Piano straordinario antiviolenza”. Tuttavia questo piano, presentato nel 2015, non rispetta gli standard richiesti dall’Onu e dal Consiglio d’Europa e non è attuabile perché non prevede né fondi specifici per ogni azione, né un idoneo sistema di monitoraggio.
Ma almeno le vittime di violenza ricevono un’adeguata assistenza legale?
Se si escludono le avvocate dei centri antiviolenza, sono pochi gli avvocati che hanno ricevuto una formazione specialistica per tutelare adeguatamente donne che hanno subito violenza maschile.
C’è interesse tra gli avvocati e le avvocate per questo tipo di specializzazione?
Non molto e il motivo è prima di tutto economico. Le donne vittime di violenza hanno diritto al patrocinio a spese dello Stato. Tuttavia – considerato che la fase delle indagini (che è la più dispendiosa) non viene retribuita, e che i tempi di liquidazione sono lunghissimi – questo si traduce in una precarizzazione della professione per le avvocate che si occupano di questa materia. Tutto ciò costituisce un disincentivo alla specializzazione in questo genere di difese, e rappresenta, allo stesso tempo, un ostacolo per le donne vittime di violenza nell’accesso alla giustizia.
Perché è ancora così difficile ottenere una sentenza di condanna nei casi di violenza maschile sulle donne?
Purtroppo i pregiudizi di genere non hanno un impatto solo nella carriera lavorativa e politica delle donne, ma costituiscono un ostacolo anche nell’accesso alla giustizia. Nonostante la giurisprudenza nell’ultimo decennio sia migliorata, assistiamo ancora a sentenze con motivazioni che hanno ben poco di giuridico. Inoltre moltissime denunce per maltrattamento, specie quelle presentate in prossimità della separazione dal coniuge violento, vengono archiviate, anche se sono fondate.
Le legge del 2013 ha contribuito a ridurre il numero delle vittime?
Non abbiamo dati certi della violenza sulle donne in Italia. E purtroppo non abbiamo più nemmeno l’unica esperta che li raccoglieva. Quest’anno, infatti, Laura Linda Sabbadini è stata rimossa dal suo ruolo di dirigente Istat e con lei sono sparite anche le statistiche sociali di genere. Dunque si possono avanzare solo tesi interpretative a partire dal numero di donne che si rivolgono ai centri antiviolenza e a quelle che denunciano.