Gioco d’azzardo, quando le donne perdono il controllo nella penombra di una sala slot

Leggere (o ascoltare) le storie raccontate da chi “ci è passato” è il modo migliore per conoscerne più aspetti possibile, quelli che vanno al di là della cronaca, dei report annuali, dei dati, che seppur spaventosi a volte, sono comunque numeri. Vale anche per il gioco d’azzardo, a maggior ragione se a finire nel tunnel sono donne. Il primo impulso è domandarsi: “Ma come si fa a non capire che si va verso l’autodistruzione, la rovina, la povertà per una delle attività più inutili quale può essere stare davanti a una macchinetta e cliccare sui tasti senza il minimo coinvolgimento?”. A spiegare come si fa, come si inciampa, è il romanzo breve “Azzardo” di Alessandra Mureddu (Einaudi), la storia autobiografica della “caduta” nella spirale dell’azzardo, che inizia in una sala slot del centro di Roma. Sull’orlo di un baratro, appunto, di solitudine.

Comincio a frequentare la sala di piazza Cola di Rienzo, ci vado dopo l’ufficio e a colpo d’occhio non è come la domenica: niente famiglie, niente coppie, molti giovani in cravatta e donne sole. Come me. Tutti osservano tutti, nessuno parla con nessuno.

Così come per le droghe, che agiscono scatenando analoghi meccanismi di dipendenza, c’è spesso una molla che fa avvicinare al mondo del gioco d’azzardo. E non è mai, o lo è soltanto raramente, la convinzione di poter migliorare la propria condizione economica. Tanto non si vince mai. E alla fine dei conti il giocatore d’azzardo non mira nemmeno alla vincita.

Quel vento l’abbiamo sentito tutti, noi giocatori. E tutti abbiamo pensato di risolvere, giocando, qualche problema, la vita ci è sfuggita di mano come una corda saponata, ci siamo ritrovati storditi, delusi, arrabbiati. La molla che scatta, per la protagonista, è il nobile intento di salvare il padre dal gorgo del gioco dal quale era stato risucchiato. I primi ingressi in sala slot per portarlo via, le prime giocate e imboccare la via della perdita di sé stessi. Perché è quello che accade, si perde il senso di sé, dei propri desideri, aspettative, delle relazioni e si punta solo a compiere le mansioni strettamente necessarie per sopravvivere con l’unico obiettivo di rinchiudersi in una sala piena di luci e rumori.

Non ho alcuna memoria di essere progressivamente ingrassata, di aver perso l’abitudine giornaliera di controllare il peso sulla bilancia, di aver mangiato troppo e di aver rinunciato al movimento e allo sport. Piuttosto ho la percezione di aver dimenticato il mio corpo su una sedia, di non averlo abitato. Di solito si immaginano gli uomini cadere in queste trappole. Sembra strano che una donna, quarantenne, possa rimanerne affascinata. E invece Mureddu racconta che non solo è possibile, ma che a volte sembra inevitabile.

Lo stile è asciutto, come se tutto quel dolore anestetizzasse il racconto, eliminasse lo slancio emotivo, tutti i fronzoli. I fatti vengono narrati con una sorta di minimalismo, specchio del nichilismo che sottende la vita di chi gioca d’azzardo: non esiste più nulla per cui valga la pena smettere, o vivere. È come se l’autrice filtrasse la sofferenza per guardarla da lontano, in modo che non possa più stravolgerla. Emblema ne è la scena in cui accompagna il padre in ospedale:

Alle diciassette e quaranta siamo al pronto soccorso.
«La figlia riferisce che in data odierna avrebbe presentato un episodio di disorientamento spazio-temporale della durata di alcune ore, con associato impaccio nell’eloquio; tale sintomatologia sarebbe regredita spontaneamente nel corso della giornata. Paziente vigile, orientato, collaborante».
Dice così, il referto.
La figlia riaccompagna a casa il padre a mezzanotte e mezza e riferisce alla madre che va tutto bene.

Il racconto in prima persona scivola nel dato di cronaca, come se quell’episodio così intimo, che la tocca e la riguarda, andasse anch’esso refertato. Il padre è stato il chiavistello verso la perdita di identità, di desiderio, ma che ruolo hanno la famiglia, gli amici, le persone vicine in queste situazioni così estreme? Spesso ci chiediamo cosa si può fare trovandosi di fronte a chi ha un problema di dipendenza. E quello che più di tutto emerge è la sensazione di impotenza: nessuno riesce a tirare fuori dal gorgo le persone che vi cadono, anche dietro una richiesta di aiuto:

Mia madre mi chiama dieci volte. Da quando sa che gioco, se non rispondo capisce dove sto. Così ogni tanto mi costringo a risponderle, qualche volta mento – «Ero in riunione» – , il più delle volte piango, le chiedo aiuto, la spingo verso un muro di impotenza.

Allontanate le amicizie, i parenti, i colleghi, non rimane che affidarsi ai gruppi di aiuto, di ascolto. Diventano un rifugio e una sorta di mondo parallelo nel quale si ama in maniera quasi bulimica, ci si avvicina e allontana con dinamiche apparentemente non chiare, ci si appoggia gli uni agli altri cercando di combattere quel mostro che tutti conoscono, ma non riescono ad allontanare. Un mostro da cui ne nascono altri: siamo abituati a conoscere le conseguenze economiche del gioco d’azzardo, molto meno quelle fisiche e psichiche, che possono andare dalla perdita di appetito e di autostima alla depressione, dall’alienazione fino a patologie più gravi.  

Conservo sul polso sinistro una cicatrice rosata, conseguenza delle cinghie di contenimento, ho quasi timore che col tempo svanisca. …Ero la più anziana dei pazienti, gli attacchi psicotici si manifestano in genere intorno al diciottesimo anno di età.

Colpisce la ricerca di immagini e figure che possano mostrare lo stato di chi porta sulle spalle il peso di una dipendenza. Il voler restituire, nel modo più chiaro possibile evitando il pietismo, scacciando l’idea di essere compatita, gli errori, le storture di una condizione che non dovrebbe esistere e che invece in qualche modo non è combattuta abbastanza:

Ho solo memoria di me come di una matrioska nel buio: una piccola donna che mi stava accucciata dentro affidava coraggiosa a Dio madre, padre e cane. Io con un piede passavo le porte dell’inferno.

In questo libro non ci sono le istituzioni, che comunque giocano un ruolo fondamentale nella presenza di sale slot, sale da gioco, casino e nel controllo delle conseguenze che un (troppo) libero accesso alle strutture possono causare. L’autrice sottolinea come tutto il discorso si chiuda sempre con quel “gioca responsabilmente” che lava le coscienze di chi sa e dovrebbe intervenire, anziché favorirne la crescita esponenziale.

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Autore: Alessandra Mureddu
Titolo: Azzardo
Editore: Einaudi (Unici), 2023
Prezzo: 15,50 euro

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  • Gloria |

    La dipendenza da gioco d’azzardo è una problematica complessa che implica aspetti biologici,sociali ,economici,psicologici e psichiatrici.È una dipendenza “senza sostanza” e quella femminile è un mondo sommerso.come tutte le problematiche complesse va affrontata in senso olistico e globale senza mai offendere la dignità e il rispetto del giocatore patologico ma con affettività restituendogli la possibilità di crearsi e di affrontate il mondo in cui prima credevaRicostruendo gradualmente quelle aspettative,quelle grandi potenzialità che lo caratterizzavano
    Anche laddove ci sono se Ti problemi psichiatrici, non bisogna spaventarsi.Un approccio centrato sulla persona,su un rapporto di fiducia tra coloro che lo prendono in carico con un comportamento onesto e corretto,asettico e umano,con la collaborazione o meno dei familiari o di strutture territoriali siano esse CT o centri socioriabilitativi riescono con il tempo e la perseveranza a trarre dei benefici.Ma le unità operative complesse per le dipendenze patologiche pubbliche,come altrove, non solo stanno invecchiando c’è carenza di personale e non si provvede a citarlo di nuove forze e di nuove professionalità.senza poi contare che chi fa con passione il proprio lavoro nel migliore delle ipotesi viene fatto oggetto di mobbing mentre l’armonia tra l’equipe professionale è un utile tassello per il paziente

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