La salute mentale della Gen Z è precaria. Depressi, ansiosi, autolesionisti, i nati a cavallo del cambio di secolo sarebbero meno propensi a prendere rischi rispetto alle generazioni precedenti. I più “grandi” tra loro escono meno, sono meno interessati alle relazioni sentimentali e ai rapporti sessuali. Tantomeno a iniziare una famiglia o avere figli. Frequentemente vivono con i genitori, sono più timidi e risultano meno ambiziosi di quelli di qualche anno più grandi. Sarebbero anche meno avvezzi al fallimento e al rischio imprenditoriale.
Secondo alcuni, parte della responsabilità di una situazione generale simile presente un po’ in tutto il mondo, è da attribuirsi all’uso di smartphone, ormai nelle mani dei bambini già dai primi anni delle elementari, e social media. Attenzione però: non ci troviamo affatto davanti a discussioni nuove, pensiamo già solo a quanto si accusavano Tv e video giochi. Inoltre, non sono tutti concordi nel puntare, semplicisticamente, il dito contro la presenza dilagante dei nuovi media. Negli ultimi 15 anni però alcuni dati hanno evidenziato caratteristiche che portano a credere come l’onnipresenza della “socialità online” abbia comunque più di un effetto sullo sviluppo psicologico e mentale dei più giovani.
Definire una generazione
Una premessa è necessaria: una generazione non si può definire attraverso una manciata di tendenze, per quanto diffuse, ed è molto più variegata di descrizioni monolitiche basate su alcuni, per quanto prevalenti, elementi. Gli strumenti, poi, non sono affatto negativi di per sé, né rappresentano gli unici rischi del presente – la realtà è sempre molto più sfaccettata della semplificazione estrema di contrapporre due opposti. Certo esiste quantomeno una corrispondenza temporale tra il dilagare delle tecnologie, il loro uso ubiquo e l’emergere di segnali di declino che offre stimoli su cui continuare a riflettere – perché il dibattito va avanti da decenni. Un dato sugli altri è interessante: i risultati PISA registrano una regressione dei livelli di apprendimento in matematica, lettura e scienze a partire dal 2012, dopo decenni di crescita lenta ma continua.
Argomentava Jonathan Haidt, professore di Ethical Leadership alla New York University Stern School of Business e autore del libro “The Anxious generation: How the Great Rewiring of Childhood is Causing an Epidemic of Mental Illness”, che gli anni ‘10 «sono stati (quelli) in cui gli adolescenti nei Paesi ricchi sono passati agli smartphone e hanno spostato molto della loro vita sociale online – in particolare sulle piattaforme social disegnate per (tutto quanto sia) virale e per la dipendenza. Una volta che i ragazzi hanno potuto portare tutto il (sapere) di internet nelle loro tasche, a disposizione giorno e notte, le loro esperienze e i loro percorsi di sviluppo si sono alterati indiscriminatamente. Le amicizie, le relazioni, la sessualità, le attività sportive, il sonno, i risultati accademici, le (idee) politiche, le dinamiche familiari e l’identità – è stato colpito tutto.»
Uno stato di pressione costante
Ribadiamolo, smartphone e social non sono per forza e i soli responsabili del crescente disagio e fragilità dei Gen-Zers. Eppure qualche effetto è ascrivibile all’utilizzo di programmi e strumenti digitali in momenti di sviluppo celebrare delicati. Prendiamo ad esempio i tassi di depressione registrati tra gli adolescenti negli Stati Uniti: rimasti abbastanza stabili a inizio anni 2000, sono aumentati del 50% tra il 2010 e il 2019 (quindi già prima dell’avvento del Covid). Nell’ultimo decennio è aumentato anche, quasi all’improvviso e in modo drastico, il numero di ragazzi che indicavano di sentirsi “tristi, vuoti, depressi” e confermavano di aver “perso interesse e di annoiarsi con attività che solitamente apprezzavano”. Non possiamo dire certo che questi dati siano giustificati dai social, all’inizio l’euforia per le possibilità che aprivano era palpabile. Ma non possiamo nemmeno affermare che certo uso della tecnologia sia totalmente innocente.
Cresciuti in un costante stato di allarme, tra crisi ambientali, rischi di conflitti nucleari, precarietà lavorativa e minacce alle libertà di espressione, i giovani sono spesso presi da una spirale che si autoalimenta. Costantemente connessi, perennemente distratti dalle notifiche sugli schermi, intrappolati dalla sensazione – tra le altre – di non potersi esimere dal controllare gli aggiornamenti sul telefono come prima e ultima azione della giornata, sentono la pressione di doverlo fare.
Secondo gli studi, che sia causato solo da smartphone sempre a portata di mano o meno, gli adolescenti, oltre ai citati stati depressivi, registrano maggiori alterazione del sonno e conseguenze negative sulla formazione delle idee, sull’immaginazione e la capacità di rielaborazione. Che arriva a tradursi in molti casi mostrano in attenzione e curve di apprendimento frammentate, maggiore esposizione al rischio di dipendenza e isolamento sociale. Data una certa maggiore propensione a spendere il tempo libero in casa, con meno occasioni di stare con i coetanei o fare esperienze nel mondo reale, molti vivono afflitti da alti livelli di confronto “collettivo” digitale, auto-consapevolezza, timore di discredito pubblico. Condizioni queste che li mettono in uno stato difensivo.
I toni cupi usati da alcuni osservatori sono messi da altri, quantomeno, in discussione, e non valgono in tutti i casi. La maggior parte degli adolescenti, infatti, non è dipendente in modo patologico da videogiochi e smartphone. Secondo alcuni studi l’uso problematico di smartphone e social media si aggirerebbe tra il 5 e il 15%. Certo però numeri che sollevano almeno un punto di domanda per esempio riguardo a tutte le sfumature precedenti la dipendenza.
Dall’ottimismo alle richieste di intervento
A inizio 2010 si percepiva un tensione tra ottimismo e preoccupazione per quello che le tecnologie avrebbero potuto rappresentare. Oggi, davanti a sempre più evidenze cresce la necessità di trovare una alternativa. In molti casi, la risposta, arriva dal basso. Tanti genitori che magari hanno iniziato presto a mettere nelle mani dei loro bimbi smartphone e tablet, stanno iniziando a chiedere interventi correttivi, controlli dall’alto più rigidi e limitazioni importanti. Esempio recente, in Catalogna l’iniziativa partita da un gruppo Whatsapp di genitori preoccupati, ha portato in breve il governo locale a proibire l’uso dei cellulari nelle scuole elementari.
Nel Regno Unito, St. Albans, a nord di Londra, con l’accordo raggiunto qualche settimana fa tra quasi tutte le scuole locali, punta a diventare la prima città “smartphone free” per i ragazzi sotto i 14 anni. Lo scorso anno, poi, a Graystone in Irlanda, i genitori collettivamente hanno proibito ai figli di avere telefonini fino alle scuole secondarie. Da gennaio 2024 nei Paesi Bassi i ragazzi del secondo ciclo obbligatorio (che parte dai 12 anni e arriva almeno ai 16) i cellulari sono vietati in tutti gli istituti. Vengono lasciati negli armadietti a inizio giornata e recuperati solo alla fine delle lezioni. Anche in Italia esiste una norma, formalmente in vigore dal 2007, ribadita in una circolare del 2022 e rinforzata quest’anno con la proibizione totale dei telefonini in classe. Purtroppo, nonostante il divieto esplicito, secondo Studenti.it lo smartphone viene effettivamente trattenuto all’entrata solo nel 26% delle scuole.
Accanto ai passi in avanti in tema normativo, si inizia a puntare il dito anche verso gruppi ritenuti responsabili. Provocatoriamente (o no?) Haidt in un suo articolo sul The Atlantic di marzo chiosava: «le compagnie (dietro) i social come Meta, TikTok e Snap, sono spesso paragonate alle industrie produttrici di tabacco, ma questo non è molto corretto verso l’industria del tabacco. Certo in entrambi i settori le società targhettizzavano i loro prodotti ai bambini, ottimizzando la fidelizzazione (cioè la dipendenza). Ma c’è una grande differenza: gli adolescenti in gran parte potevano e hanno scelto di non fumare. I social media, al contrario, applicano molta più pressione sui non-utilizzatori, in un’età molto più giovane e in modi molto più insidiosi».
Che fare?
I ragazzi non stanno bene. Nè amano la situazione in cui si trovano. Intrappolati dall’uso dei social, molti ci stanno perché “lo sono tutti gli altri”. Interpellati in uno studio dell’Università di Chicago alla domanda diretta se preferirebbero vivere senza (Instagram o TikTik nello specifico), il 58% ha risposto di sì.
E noi adulti? Siamo condannati a vivere impotenti e passivi le conseguenze della situazione (online e offline)? In realtà no. Si può, per esempio, chiedere e applicare alcuni accorgimenti. No allo smartphone prima delle scuole superiori, social media proibiti sotto i 16 anni, scuole senza cellulari e bambini lasciati più indipendenti ad “allenarsi” alla responsabilità attraverso il gioco libero nel mondo reale. «La principale ragione per cui l’infanzia bassata sul telefonino è così dannosa – spiega il Haidt – è perché fa mettere da parte tutto il resto. Gli smartphone bloccano le esperienze. L’obiettivo non è togliere del tutto gli schermi, né tornare agli anni ‘60. Dovrebbe essere quello di creare una versione di infanzia e adolescenza che tiene i ragazzi ancorati nel mondo reale mentre fioriscono nell’era digitale».
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