Sei giovani su dieci sperimentano malessere emotivo a lavoro. È quanto emerge dai dati dell’Osservatorio WellFare – una piattaforma di ascolto diretto creata dal Consiglio Nazionale dei Giovani.
La ricerca indaga lo stato di salute psicofisico dei giovani a scuola, all’università e al lavoro e ha coinvolto circa 300 giovani dai 15 ai 35 anni, provenienti da tutta Italia, con diversi livelli di scolarizzazione e professionalità.
Le ragioni a cui viene ricondotto il malessere sul luogo di lavoro sono dovute principalmente a esaurimenti emotivi da burnout o all’estrema pressione associata al carico di richieste, specialmente sui dispositivi mobili personali. Sembra dunque che a impattare maggiormente siano le modalità con cui viene chiesto di svolgere le attività. Non è dunque un caso se tra le soluzioni per aumentare il benessere venga sottolineata proprio la promozione di iniziative di supporto alla gestione delle pressioni quotidiane.
A tal proposito, Maria Cristina Pisani, presidente del Consiglio Nazionale dei Giovani, ha dichiarato:
“Ansia, stress e nervosismo condizionano pesantemente la vita lavorativa degli under 35, anche a causa della pressione sociale dovuta alle aspettative degli altri, e su questo i social media hanno avuto un impatto estremo e una grande responsabilità. La società dei record straordinari, raccontati come ordinari, crea una pericolosa distopia tra il reale e il percepito, che può portare ad una serie di problematicità di salute mentale. La paura del giudizio, le aspettative e il senso di inadeguatezza sono infatti tra i principali motivi riportati come cause legate al senso di ansia, così come le incertezze per il proprio futuro e le scadenze impellenti nello studio e nel lavoro.”
Parlando con manager e responsabili in azienda, tuttavia, si affaccia spesso l’altra faccia della medaglia: i giovani si lamentano eccessivamente, pretendono tutto e subito, vogliono la strada spianata, mal sopportano un po’ di sana fatica, non sono dediti al sacrificio.
Dove sta la verità? Sono i giovani ad essere fragili o sono i ritmi di lavoro e le aspettative ad essere insostenibili?
E’ essenziale partire da una riflessione: la cultura del sacrificio – fatta di estremo senso di responsabilità verso il proprio lavoro e abnegazione per la carriera – è stata a lungo l’unica alternativa presente.
Eppure, nel contesto di oggi – incerto, complesso, in costante evoluzione – mostra i suoi limiti. Se ieri dedicarsi con devozione al proprio percorso lavorativo consentiva determinate certezze – sicurezza, stabilità economica, crescita – oggi, l’equazione non torna. In un mondo non lineare e complesso, vi sono talmente tante variabili che concorrono al successo o all’insuccesso di un percorso di carriera, che i giovani sembrano non voler più sacrificare la loro vita e la loro salute psicologica per un esito comunque incerto. E un lavoro che in ogni caso non consente più di percepire quello stato di benessere a cui ieri era possibile ambire. Ecco allora che le priorità cambiano: ad affacciarsi quella di una vita soddisfacente e in equilibrio. Dove il lavoro diventa un elemento come un altro – spesso nemmeno prioritario.
In questo scenario, vi è tuttavia uno spazio vuoto: se si prende le distanze dalla cultura del sacrificio, cosa rimane? Un’alternativa riconosciuta socialmente come altrettanto valida ad oggi non esiste. Siamo in una fase di mezzo. Uno spazio liminale in cui si sono fatti evidenti i limiti di certi modelli – e non in quanto limitati di per sé ma se rapportati al contesto odierno – ma in cui ancora si fatica a costruirne di diversi. Quel che è certo, è che finché le generazioni si combatteranno per decretare quella che detiene la visione più corretta sul lavoro e la sua cultura e non si fermeranno a comprendersi davvero, un’alternativa valida sarà impossibile da costruire.
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