Si chiude con un’archiviazione la vicenda processuale dei feti sepolti a Roma, al Flaminio. Della questione Alley si era occupata già dall’ottobre del 2020. Ci è tornata a poco meno di un anno, per ribadire l’illegittimità di una prassi e insieme la prorompente portata politica della stessa.
Sepoltura senza consenso, con il nome della donna stampigliato su una croce, in bella mostra, quasi a ribadire il marchio a fuoco che tocca a chi interrompe la gravidanza, in uno Stato come il nostro che rimane tutt’altro che laico: questi i fatti per chi non se ne ricordasse. Le ultime notizie sono del 7 febbraio. Per ricostruire la vicenda giudiziaria, basterà ricordare che nel mese di aprile, la Procura della Repubblica di Roma aveva chiesto l’archiviazione.
Si era opposta Differenza Donna, l’associazione da cui era partito l’esposto. Elisa Ercoli, la presidente, mantiene la posizione: “Come associazione abbiamo denunciato pubblicamente e con forza questa pratica, recandoci al cimitero dei feti a Roma richiamando l’attenzione (e l’incredulità) di moltissimi media stranieri. Oggi stiamo assistendo le donne vittime di questa inaccettabile violenza, coinvolgendo in questa battaglia comune tutta la rete che con noi opera per il contrasto alla violenza: esigiamo sia fatta chiarezza su fatti gravi che violano i diritti e la libertà delle donne”. Richieste inascoltate, verrebbe da dire.
La gip del Tribunale di Roma, ha messo nero su bianco che il fatto è stato accertato ma che sulla scorta del quadro probatorio a mancare è la finalità di lucrarne. Non ci sarebbe, nell’illecita diffusione dei dati sensibili e nella violazione della riservatezza delle donne, “alcun nocumento intenzionalmente voluto al fine di trarre a sé o ad altri ingiusto profitto”. Quella ricostruita è dunque una condotta che sarebbe meno grave in quanto originatasi da “un’erronea prassi”, posta in essere dalla struttura sanitaria in cui era avvenuto l’aborto.
Non c’è dolo, c’è però l’errore e questo l’ordinanza lo dice con chiarezza. Di questo errore pare tuttavia che nessuno sia chiamato a dar conto. Una questione di lana caprina, quella che ha messo alla gogna centinaia di donne per anni o solo l’ennesimo caso di mala burocrazia? Non v’è chi non veda, in questi fatti, un’aggressione del più controverso tra tutti i diritti delle donne, quello alla interruzione volontaria di gravidanza. Teresa Manente e Ilaria Boiano sono le avvocate di Differenza Donna, a loro abbiamo chiesto di analizzare la decisione.
Non c’è dolo ma c’è colpa. Avvocata Manente, come commenta l’archiviazione disposta dall’Ufficio del Gip sui fatti del Flaminio?
Siamo dinanzi a una grave sottovalutazione delle condotte denunciate. L’associazione Differenza Donna e le donne che hanno sporto denuncia (dopo aver scoperto che dopo essersi sottoposte ad aborto terapeutico il proprio nome e cognome era riportato su una croce) hanno chiesto di accertare i reati e le responsabilità derivanti da questa pratica. E con criterio: l’ordinamento punisce chi rivela l’identità delle donne che si sottopongono alle procedure previste dalla legge 194/1978, la tutela poi trova rafforzamento del codice della privacy.
Ci sono responsabilità che non sono state perseguite, c’è chi rimane impunito dopo questa decisione.
Avvocata Boiano, è davvero una questione portata “per errore” al vaglio del giudice penale, come si legge dal provvedimento della giudice per le indagini preliminari?
Colpisce leggere che la questione sia stata portata “per errore” dinanzi all’autorità penale, dopo che sia la Procura sia il Tribunale ha ravvisato la sussistenza della condotta materiale dei reati: ci dicono cioè che la procedura, sin dagli ospedali fino alla sepoltura, non solo è errata, ma contra legem. Si legge però che nella lunga filiera di responsabilità tutti hanno agito inconsapevolmente, nell’ignoranza della legge e che non vi fosse l’ulteriore fine di trarre profitto ovvero non fosse provata la rivelazione dell’identità delle donne “senza giusta causa”. Ma quale sarebbe la giusta causa dell’esposizione pubblica, a mo’ di plotone di esecuzione, di centinaia di nomi di donne che negli anni hanno abortito? E l’assenza di profitto non è stata indagata in alcun modo. Per esempio, tra i vari aspetti da indagare, quanto costerebbe alle strutture sanitare un’altra modalità di smaltimento? Chi fornisce e a che prezzo bare e croci? Ma ricordiamo che il vantaggio non è solo economico, ma simbolico e politico: si creano spazi dove gruppi anti-choice militano e fanno propaganda contro l’aborto e contro le donne.
Le riflessioni che evoca il confronto con le professioniste sono molteplici e ognuna ha implicazioni importantissime. Quel che è certo è che le donne che si sono poi rivolte alla giustizia l’abbiano fatto perché hanno subito una gravissima lesione dei loro diritti di riservatezza, diffusi su più fronti i loro dati sensibili, violate in uno dei momenti più intimi della vita. Pare che la decisione di interrompere la gravidanza si paghi sempre in Italia, anche le volte in cui non costringe alla clandestinità o al pellegrinaggio verso un ospedale senza obiettori.
Qual è il messaggio che viene fuori da questa vicenda, avvocata Manente?
L’esposizione dei nomi delle donne pubblicamente e su delle croci indicative di sepolture è solo l’ultimo atto violento e pubblico contro le donne che per esercitare il diritto all’accesso a una prestazione sanitaria hanno già subito trattamenti che la Corte europea per i diritti umani qualifica come inumani e degradanti. Il livello di tutela della salute sessuale e riproduttiva in Italia è oramai inaccettabile sotto ogni profilo e non assicurare neppure la riservatezza è indicativo di un clima di denigrazione istituzionale delle donne che decidono di avvalersi delle prestazioni autorizzate dalla legge 194.
Sappiamo bene che ci sono territori come l’Abruzzo in cui si sta provando a legalizzare una prassi come quella del Flaminio, appena derubricata a “cattiva prassi” dal Gip presso il Tribunale di Roma, quando in realtà si tratta di un illecito gravissimo.
Dove stiamo andando, avvocata Boiano? Quali scenari vede davanti a noi?
La libertà di autodeterminazione in campo sessuale e riproduttivo è un campo di battaglia aperta per le donne: in un ordinamento in cui formalmente l’aborto è consentito nelle condizioni previste dalla legge, nella sostanza le donne affrontano quotidianamente ogni tipo di ostacolo, burocratico, economico, ma anche di disuguaglianza territoriale, tutti aggravati dall’abuso dell’obiezione di coscienza. Il problema più grave che oggi viviamo è il processo di criminalizzazione sociale dell’accesso delle donne all’aborto, terreno che si prepara generalmente, come ci insegna l’esperienza della Polonia, per portare l’attacco sul piano legislativo con introduzione di divieti e sanzioni penali.
Le posizioni dell’Ufficio Gip e quelle delle avvocate che difendono le donne sono davvero antitetiche. A leggere l’archiviazione, dopo aver provato a ragionare di diritti con le due professioniste in prima linea, resta più di qualche perplessità.
“La carenza normativa riscontrata in tale ambito che ha portato a questo ‘uso’ dell’apposizione dei nomi delle donne al fine di identificazione dei feti – si legge nel provvedimento – ha successivamente comportato un celere intervento, dietro impulso dell’Autorità garante per la Privacy, del Comune di Roma, Dipartimento tutela ambientale, al fine di modificare il Regolamento di Polizia cimiteriale nonché i protocolli riguardanti il trattamento dei dati personali nei cimiteri di Roma Capitale”
Dall’ordinanza a venir fuori sarebbe una “carenza normativa che ha portato a questo ‘uso’ dell’apposizione dei nomi delle donne al fine di identificazione dei feti”.
Avvocata Manente, serve davvero un’altra legge per tutelare le donne anche da questo genere di violenza o è soltanto che bisognerebbe applicare quelle che ci sono già?
Non mancano le norme: le condotte denunciate sono state inquadrate nelle fattispecie che puniscono la violazione della riservatezza sia nella legge 194 sia nel codice della Privacy, come spesso accade, quando riguarda la violazione dei diritti umani delle donne, occorre solo scorgerle nei fatti queste violazioni, indagarle e punirle.
Il provvedimento dà conto infine di nuove, apposite “istruzioni operative per rimuovere la violazione, nonché nuove istruzioni in merito ai nuovi trattamenti, prevedendo per l’identificazione del feto unicamente un codice alfanumerico“.
In sostanza da domani potremo aspettarci di leggere solo codici. Per ciò che è successo fino a oggi, invece, aspettiamoci che non pagherà nessuno.
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