Quando capita di avere come Paese qualcosa da insegnare agli Stati Uniti è certo una soddisfazione. Se poi capita che si tratti di finanza e corporate governance, la soddisfazione è doppia. E’ stato diffuso da pochi giorni il report annuale di Catalyst, l’associazione no profit nata con l’obiettivo di supportare il rafforzamento della componente femminile nella forza lavoro: i dati relativi al 2015 ci dicono che solo il 19,9% dei consiglieri di amministrazioni delle società quotate all’ S&P500 sono donne. Con un dato in crescita sui nuovi nominati, pari al 27% del totale.
L’Italia in questo inizia a non essere seconda a nessuno, non solo in Europa, ma a questo punto anche a livello mondiale. Grazie alla legge Golfo-Mosca del 2012, relativa alle quote di genere negli organismi societari, le percentuali italiane sono andate continuamente crescendo negli ultimi due anni. Secondo gli ultimi dati Consob, a fine giugno 2015 il 27,6% dei posti di consigliere era coperto da donne. Un dato molto vicino all’obiettivo della legge, che si poneva il raggiungimento di quote femminili pari a un terzo dei consigli di amministrazione e dei collegi sindacali delle società quotate.
Certo la norma fa la differenza. I dati relativi alle società quotate all’Aim o delle società non quotate, non sono certo pari a quelli che abbiamo appena visto. Accade lo stesso negli States, patria del liberismo, dove non esiste un obbligo di legge pur se la diversity è declinata in un’accezione ben più ampia della nostra. Capita così che esistano società, sempre dello S&P500, che hanno una sola donna del board o addirittura nessuna.
Resta il fatto, comunque, che la legge italiana, per essere costituzionale, doveva avere un limite temporale. Terminerà il suo effetto dopo nove anni dall’entrata in vigore. In sociologia l’arco di temporale di 10 anni è riconosciuto sufficiente perché i cambiamenti possano trovare una stabilità. Staremo a vedere se per allora avere donne sedute al tavolo dei board sarà diventata una normalità o se si tornerà indietro.