Donne nella ricerca: firmano articoli scientifici meno degli uomini

A partire dall’ambito di studio, si può individuare con un certo margine di accuratezza se una ricerca è stata firmata da un autore o da un’autrice. Stiamo iper-semplificando certo, eppure alcune recenti evidenze confermano una disparità di genere nella pubblicazione scientifica ancora persistente. In certi casi molto profonda e soprattutto diffusa in tutto il mondo.

Tratteggia il quadro generale e le tendenze degli ultimi dieci anni il “Nature Index Author Gender Ratio”, progetto dell’omonima rivista americana che ha appena diffuso i risultati della sua prima analisi sul rapporto tra uomini e donne nella pubblicazione scientifica. Con il supporto di alcuni strumenti di intelligenza artificiale, il team di Nature ha analizzato oltre un milione e mezzo di autori e autrici di articoli apparsi su periodici di scienze naturali tra il 2015 e il 2024. Il risultato più evidente, per quanto decisamente non inaspettato, è la conferma del “predominio” maschile. E, in particolare poi, come in alcuni ambiti e in alcuni luoghi la presenza femminile sembra l’eccezione che conferma la regola.

Secondo gli studiosi però, alla situazione quasi immutata nel tempo si accompagna una flebile, per quanto numericamente ancora piccola, novità. Lentamente le donne iniziano a farsi spazio. Dalle riflessioni rispetto ad alcune rilevazioni specifiche, poi, sembra chiaro come azioni intenzionali promosse dalle istituzioni possono influire su una maggiore presenza di autrici di pubblicazioni scientifiche*.

Dalla fisica alla medicina riproduttiva

Chi firma e pubblica più tipicamente le sue scoperte in ambito di fisica quantistica? E chi si occupa soprattutto di scienze della salute?

Nel primo caso risulta intuitivamente giustificabile, anche già solo prendendo in considerazione i numeri di studenti iscritti ai percorsi di laurea e PhD, la prevalenza di autori uomini. La risposta alla seconda domanda, invece, è un po’ meno immediata. Si riscontrano infatti percentuali più equilibrate soprattutto in alcuni ambiti della ricerca medica. Non neghiamolo: i ricercatori in generale risultano i più prolifici. In alcuni casi anche molto più prolifici. Ma allo stesso tempo, in numeri analizzati mostrano l’assottigliamento della differenza di genere almeno in certi settori di studio.

Sono pochissime le autrici che fanno ricerca in fisica “classica” (15%), fisica quantistica e fisica della materia condensata (entrambe 16%). Mentre la parità si raggiunge nel campo della medicina riproduttiva (53%), della pediatria (50%) della nutrizione e dietetica (50%).

È chiaro che la situazione descritta ha molto a che fare anche con le scelte iniziali di studenti e studentesse dei percorsi di studio da seguire. A questa condizione di base, si aggiungono poi opportunità e occasioni diverse progredendo nei percorsi di ricerca e nella carriera. Fattori che condizionano il peggioramento della posizione “di rincorsa” in cui si trovano le autrici. Lo conferma Lynn Nygaard, ricercatrice specialista in scrittura accademica interpellata da Nature a commento dei dati. «Il problema è che gli uomini e le donne generalmente non operano nelle stesse condizioni. C’è una distribuzione (distorta) tra ambiti. Diversi settori hanno modelli e posizionamenti diversi per la pubblicazione» con molti uomini ad avere titoli senior e molte donne invece a essere (o rimanere) junior.

Al quadro sbilanciato nei centri di ricerca e nelle università si aggiunge il ruolo impattante giocato da alcune componenti sociali, che frenano il contributo delle autrici. Basti citare il congedo di maternità e gli impegni di cura, tra le ragioni più tipiche a influire le pause presenti nelle carriera delle donne. Secondo gli studi di Nygaard, se nell’analisi si prendono in considerazione interruzioni di questo tipo, la differenza di genere in tema di produzione scientifica si riduce di molto.

Ma le necessità familiari non solo le uniche cause determinanti. Nel sistema attuale, a questo tipo di interruzioni, infatti, si aggiungono aspetti direttamente legati alla professione – dalla maggiore aspettativa che le ricercatrici svolgano attività di supporto agli studenti, alla pressione di essere role model e rappresentare la componente femminile delle scienze in panel di discussione o sui media. Secondo Nyggard «tendiamo a credere che per le istituzioni molti dei problemi siano difficili da sistemare dato che rappresentano problemi sociali e culturali più estesi».

Le difficoltà ad aumentare la presenza delle donne nella ricerca se certo risiedono nella carenza di studiose in ambiti dominati dagli uomini, sono in parte da imputare allora anche alla mancanza di un migliore equilibrio nella gestione delle necessità familiari tra membri dei diversi generi. Condizioni squilibrate che offrono possibilità differenti alle donne o agli uomini di salire di “grado”. E di poter, quindi, progredire nella produzione scientifica, per esempio. O, da lì, poter coinvolgere altre nella ricerca.

A parziale conferma, uno studio australiano pubblicato quest’anno. La scoperta? I team di ricerca finanziati dal governo tra il 2000 e il 2020 che erano a guida femminile presentavano al loro interno una maggiore percentuale di ricercatrici (32%) rispetto a quelli invece guidati da uomini (24%).

Le istituzioni sono impotenti?

La ricerca scientifica è sotto attacco. Non solo perché messa in discussione da chi non per forza avrebbe gli strumenti per farlo. Ma anche evidentemente da mosse politiche che mirano a un controllo più specifico. Notizia freschissima, le dispute tra alcune delle maggiori istituzioni americane, Harvard e Columbia University in testa, e il governo americano. La contesa riguarda le minacce dell’amministrazione Trump di congelare miliardi di dollari di fondi federali nel caso in cui le università interessate non rispettassero le indicazioni date.

Indicazioni che interessano, tra le altre, la cancellazione di tutti i programmi DE&I, un po’ specchio di quanto imposto negli ultimi mesi (ed poi, in molti di questi casi, implementato) alle aziende. Davanti a tali prospettive, molti ricercatori stanno già guardando concretamente alle possibilità offerte oltre confine. Anche perché, nella confusione attuale, una certa quantità di progetti di ricerca sono stati temporaneamente sospesi o interrotti del tutto.

Per quanto questa sia una situazione specifica degli Stati Uniti – nazione che resta una delle fucine maggiori di innovazione su scala mondiale – la questione risulta particolarmente interessante in ottica di parità di genere. Dai numeri raccolti da Nature emerge infatti un’interessante rilevazione proprio in tema di programmi di inclusione.

Secondo l’analisi, nelle hard-sciences (le scienze “dure”, esatte, come le scienze naturali o la matematica), ambiti in cui chiaramente persiste una predominanza di autori uomini, dove si rileva una percentuale di ricercatrici più alta rispetto ai numeri previsti, sarebbero presenti interventi intenzionali da parte delle istituzioni accademiche nella promozione della parità. A rinforzare questa evidenza, gli esempi delle dieci migliori università americane presenti nell’indice 2024. In tutte il numero delle autrici, almeno fino al 2024, supera le aspettative. Con il caso più emblematico tra gli altri registrato alla University of Washington* di Seattle. È qui infatti che si registra la disparità maggiore tra numeri ipotizzati e dati effettivi. A fronte di una percentuale prevista del 27%, le ricercatrici che hanno firmato studi scientifici sono state il 37%.

Questo tipo di situazione, però, resta una rarità. In solo tre nazioni al mondo infatti la quota delle autrici supera il 30%. Succede negli Stati Uniti, in Canada e in Francia. Poco sotto questa soglia, il Regno Unito (29%) e l’India (28%). Ad avere le percentuali tra le più basse, il Giappone. Qui le firmatarie di pubblicazioni su riviste scientifiche sono il 16%. Nel Paese del Sol Levante, tra l’altro, nessuna istituzione presenta una differenza e ovunque il numero previsto di autrici si conferma quello reale.


* Anche qui la mano-lunga delle minacce di tagli si sta facendo sentire. Lo confermava a metà aprile intervistata dalla NBC, la professoressa Rachel Bender Ignacio, del dipartimento di epidemiologia dell’università di Seattle, che a fronte dell’interruzione di fondi, si è ridotta lo stipendio per distribuirlo al suo staff. «Al momento, a causa dei tagli ai finanziamenti, non possiamo arruolare altri partecipanti per gli studi finanziati a livello federale, né avviarne di nuovi. (Ma nemmeno) svolgere alcun lavoro».

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