Quali sono le parole adeguate per parlare di diversità?

Quanti di noi sono in difficoltà quando cercano di essere politically correct di fronte alle diversità? Abbiamo passato anni a sentirci dire di usare la locuzione “non udenti” e ora invece il termine corretto è “sordi”. Stessa cosa si dica per “persone di colore”, oggi definite in modo diretto “nere”. Di fronte a certi termini schietti e diretit c’è ancora chi storce il naso perché sembra “poco gentile”, un atteggiamento non attento alla sensibilità di chi viene definito con quel termine. Eppure le nuove generazioni ci stanno insegnando che il linnguaggio usato finora va svecchiato per andare incontro a una società in cui le diversità non si misurano più e nonvengono nascoste, perché sono la normalità.

Allora il vocabolario continua ad arricchirsi e anche termini come neurodivergenza (condizione di chi possiede un profilo neurologico diverso dalle espressioni più tipiche), adultismo (un tipo di discriminazione nei confronti dei giovani che spesso si manifesta attraverso l’atteggiamento di superiorità degli adulti), ma anche ageismo e abilismo (rispettivamente la discriminazione basata sull’età e quella nei confronti delle persone con disabilità) entrano sempre più nel linguaggio comune.

L’evoluzione del linguaggio inclusivo

Con il Decreto Legislativo 62/24 in vigore dal 30 giugno 2024, è stata aggiornata la terminologia relativa alla disabilità, nell’ottica di promuovere un linguaggio più rispettoso e inclusivo. Le modifiche principali includono:

  • la sostituzione del termine handicap con condizione di disabilità;
  • la sostituzione di espressioni come persona handicappata, portatore di handicap, disabile e diversamente abile con persona con disabilità;
  • la riformulazione di termini come “in situazione di gravità” in “con necessità di sostegno elevato o molto elevato“.

Lo scorso 18 ottobre la Fondazione Diversity ETS ha pubblicato le linee guida per il linguaggio inclusivo, un documento frutto di dieci anni di lavoro, aggiornato, approfondito e a disposizione gratuitamente di tutti coloro che vogliono posare il proprio “mattone” per la costruzione di una società inclusiva, rispettosa e valorizzante di ogni persona: «Tutti pensano di sapere quali sono le parole offensive che non andrebbero mai usate – ha detto Francesca Vecchioni, presidente della Fondazione Diversity – e invece il difficile è capire quali sono le migliori da usare, ovvero quelle scelte dalle comunità di riferimento per descrivere se stesse su tematiche come l’etnia, la religione, l’LGBTQ+, il genere, l’aspetto fisico e la disabilità. Denigrare è sbagliato – ha aggiunto – ma molte persone lo fanno inconsapevolmente, usando magari un linguaggio pietistico, paternalistico o eroico che contribuisce ad alimentare stereotipi e discriminazioni. Questo è un documento pensato per chi vuole usare consapevolmente le parole e capire come evitare errori, adottando una comunicazione corretta e valorizzante in una società che si evolve insieme alla lingua, ma dove reperire informazioni è sempre più difficile. Anche per i media, che spesso rischiano di rimanere indietro».

Come orientarsi nelle aree principali della diversità

Basate sulle competenze del network della Fondazione, sul punto di vista delle comunità sottorappresentate e su fonti, prassi e risorse riconosciute a livello italiano e internazionale, le linee guida del linguaggio inclusivo sono uno strumento teorico e pratico per chiunque voglia aggiornarsi sul modo più corretto di esprimersi nelle situazioni più “diverse”. Le aree della diversità, infatti, presentano dei sottoinsiemi di cui è necessario conoscere le parole chiave e il loro significato prima di poter formulare un pensiero, farsi un’opinione e relazionarsi con le comunità di riferimento.

Il documento è diviso in due parti. La prima, più teorica, include le ragioni, i concetti base e le modalità in cui la rappresentazione (dalle narrazioni stereotipate agli effetti di un linguaggio scorretto) possa generare in impatto sociale e una comunicazione realmente rispettosa ed efficace. La seconda parte, invece, fornisce gli strumenti pratici per orientarsi nelle aree principali della diversity (genere, etnia, disabilità e LGBT+): glossari, consigli e indicazioni su quali narrazioni e quali parole siano preferibili ad altre, e perchè.

L’indicazione generale, si legge nel documento, è quella di non usare mai parole che pongano su un livello di inferiorità le persone e i gruppi a cui ci si sta riferendo. Anche se queste linee guida non sono definitive (perché non ne esistono di immutabili e applicabili a ogni singola persona e situazione), esse rappresentano un insieme di strategie da cui partire per comprendere meglio come navigare l’universo della diversità.

Dall’approccio al linguaggio alle negazioni, esempi inclusivi

Per fare qualche esempio, parlando di LGBT+ spesso si confonde “fare coming out” (l’atto volontario di una persona di rivelare la propria appartenenza alla comunità LGBT+) con “fare outing” (l’atto di rivelare l’appartenenza di un’altra persona alla comunità LGBT+, senza il suo consenso). E ancora, è meglio evitare l’espressione “relazioni dello stesso sesso” (a meno che non ci si riferisca all’ambito legale) e utilizzare “relazioni dello stesso genere” per includere anche quelle queer, termine utilizzato da chi non vuole dare un nome alla propria identità di genere e/o al proprio orientamento sessuale (perchè magari ci si sta interrogando a tal proposito, o più semplicemente non c’è la volontà di precisarlo). In questa circostanza, le due persone coinvolte nella relazione non saranno dello stesso sesso ma saranno dello stesso genere.

Quando invece il tema è la disabilità, sempre nel documento vengono elencate una serie di parole ed espressioni consigliate sulla base della distinzione tra linguaggio “person first” (persona al primo posto rispetto alla disabilità) o “identity first” (come richiesto ad esempio dalla maggior parte della comunità autistica), dove la disabilità non passa in secondo piano perché fa parte dell’identità della persona. Andrebbero evitate le negazioni come “non vedente” e “non udente” preferendo invece “persona sorda” e “persona cieca”, ed anche espressioni pietistiche o superate come “diversamente abile”, “handicappato” e “invalido”, scegliendo l’espressione “persona con disabilità” (approccio “person first”).

Quanto al tema dell’etnia, invece, le linee guida della Fondazione Diversity presentano una serie di parole di uso ancora comune che andrebbero evitate, come “Bangla”, “Clandestino” e “Terzo mondo”. Al loro posto, meglio utilizzare “persona del Bangladesh”, “Migrante” e “persona di tale area geografica”.

Parlando di genere, nel documento viene spiegato come in questi anni sia nato un dibattito sul maschile universale nella lingua italiana. Gli utlimi studi sull’influenza che il linguaggio ha sui ragionamenti e sulle azioni, ha messo in evidenza che il 38% della nazioni che usano il maschile universale, ad esempio, vedono una maggiore esclusione della donna dal mercato lavorativo. Inoltre, il maschile generico viene interpretato inconsciamente come maschile e non come maschile universale: quando si parla di “uomini” nel senso di “esseri umani”, si visualizzano solo gli “uomini”. Tra le parole da evitare, tutte quelle offensive legate al comportamento sessuale, mentre tra le espressioni sconsigliate in un dialogo ci sono, per esempio, “donna al volante, pericolo costante” (perchè si associa la donna a un’idea di incompetenza) ed “essere una femminuccia” (spesso rivolta come denigrazione verso bambini/ragazzi più sensibili per associare la femminilità alla debolezza).

L’inclusione nella lingua italiana, il punto di vista dell’Accademia della Crusca

Da più di un anno, l’Accademia della Crusca – la più antica istituzione linguistica del mondo (fondata a Firenze nel 1583,) che si occupa di studiare, diffondere e tutelare la lingua italiana – si è espressa definitivamente a favore di un’inclusione grammaticalmente corretta, dopo i tanti quesiti pervenuti sui temi legati al genere. In particolare, riguardo l’uso dell’asterisco, dello schwa o di altri segni che “opacizzano” le desinenze maschili e femminili; possibilità per l’italiano di ricorrere a pronomi diversi da lui/lei o di “recuperare” il neutro per riferirsi a persone che si definiscono non binarie. Inoltre, come ha sottolineato di recente la vicepresidente dell’Accademia Rita Librandi, molte sono le parole che nascono e poche quelle che crescono. Dunque, è importante capire non solo cosa siano i neologismi, ma anche perché suscitino da sempre tante reazioni contrastanti.

Nelle direttive dell’Accademia della Crusca, però, si precisa che il parere dato sul tema investe il piano strettamente linguistico e che anche coloro che hanno espresso contrarietà all’uso di asterischi o altri segni estranei alla tradizionale ortografia italiana, si sono mostrati non solo contrari al sessismo linguistico e rispettosi nei confronti delle persone che si definiscono non binarie, ma anche molto sensibili alle loro esigenze. E questo è senz’altro un dato confortante che va sottolineato.

Un asterisco sul genere” è il documento che si riferisce in particolare ai testi di natura giuridica e raccoglie una ricca e approfondita analisi sulle differenze tra genere naturale e genere grammaticale, l’uso del “neutro”, il maschile plurale come genere grammaticale non marcato, le lingue naturali e i processi di standardizzazione e dirigismo linguistico, gli allocutivi (tu, voi, lei) e la tematica del genere, i pronomi per i gender fluid, il femminile plurale, gli asterischi e lo schwa. La volontà dell’Accademia della Crusca non è rendere il linguaggio meno inclusivo nei contesti quotidiani (per i quali abbiamo tutti libera scelta), ma fornire uno strumento pratico per aiutare a non confondere il genere della lingua con l’identità di genere e insegnare ai più piccoli l’educazione all’ascolto delle necessità dell’altro, perché solo così ci può essere una vera inclusione. Come a dire: “Ok le parole, ma poi servono anche i fatti”.

Gli effetti negativi di parole e rappresentazioni scorrette

Il linguaggio ha il potere di unire o dividere, includere o escludere; determinando se la persona che ci ascolta si senta accettata o respinta. Come già detto, le parole non sono solo termini scelti a caso nei nostri discorsi, ma possono avere un impatto significativo e diretto, in particolare sulle persone delle comunità sottorappresentate che spesso sono quelle più esposte a discriminazioni se non, nei casi più gravi, a situazioni di abuso e pericolo.

Questo, oltre a rappresentare un costo sociale, contribuisce al cosiddetto fenomeno di minority stress, ossia la somma degli effetti psicologici e fisiologici dovuti alle condizioni sociali avverse vissute da membri di gruppi stigmatizzati (Fonti: V. Lingiardi, Citizen Gay. Affetti e Diritti, Il Saggiatore, 2016 e I. H. Meyer, Minority Stress and Mental Health in Gay Men, Journal of Health and Social Behavior, Vol 36, n. 1, 1995).

E non si può non ricordare che le parole e il linguaggio sono alla base di ogni livello di discriminazione sociale, come ben rappresentato dalla piramide dell’odio, un’infografica ormai tristemente “famosa” che spiega come i crimini d’odio vengano socialmente supportati e giustificati da una serie di step precedenti: non sono fenomeni isolati, ma esistono grazie a una serie di azioni e comportamenti inseriti e agiti dal sistema sociale, che possono essere eliminati alla base proprio grazie all’uso del linguaggio inclusivo.

 

La piramide dell’odio è stata inserita nella relazione finale della Commissione sull’intolleranza, la xenofobia, il razzismo e i fenomeni di odio, istituita dalla Camera dei deputati nel maggio 2016 e intitolata nel luglio 2017 a Jo Cox, politca britannica laburista presso la Camera dei Comuni del Regno Unito, barbaramente uccisa da un estremista di destra il 16 giugno 2016 con tre colpi di arma da fuoco e diverse coltellate mentre stava per iniziare un incontro elettorale fuori dalla biblioteca di Birstall, nei pressi di Leeds.

La relazione finale è stata approvata dalla Commissione dopo 14 mesi di lavoro nel corso dei quali sono state ascoltate 31 testimonianze ed acquisite oltre 150 documentazioni tra studi, ricerche, pubblicazioni monografiche, raccolte di dati e position papers. Al suo interno si trova un’analisi approfondita sulle dimensioni, le cause e gli effetti del discorso di odio (hate speech) definito come “l’istigazione, la promozione o l’incitamento alla denigrazione, all’odio o alla diffamazione nei confronti di una persona o di un gruppo di persone, o il fatto di sottoporre a soprusi, molestie, insulti, stereotipi negativi, stigmatizzazione o minacce tale persona o gruppo; comprendendo la giustificazione di queste varie forme di espressione fondata su una serie di motivi quali: razza, colore, lingua, religione o convinzioni, nazionalità o origine nazionale o etnica, nonché l’ascendenza, l’età, la disabilità, il sesso, l’identità di genere, l’orientamento sessuale e ogni altra caratteristica o situazione personale” (definizione ECRI-Consiglio d’Europa).

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