La carenza di insegnanti. Cause e pericoli della fuga dalle cattedre

Mancano gli insegnanti. Le cause sono molteplici ma la situazione è diffusa: con le cattedre di alcune materie (soprattutto STEM) a restare più “scoperte” rispetto ad altre, ovunque nel mondo trovare persone abilitate a gestire una classe per molte scuole è una grande sfida. Peggio va nelle aree del disagio. Le zone più svantaggiate risultano sproporzionatamente più colpite dalla carenza numerica di personale docente. Meno insegnanti significa poi l’acuirsi del rischio di una scarsa qualità dell’educazione. E, in un circolo vizioso, dove i livelli qualitativi risultano inferiori, diventa difficile attrarre o indirizzare nuovi professionisti abilitati.

Scriveva eloquentemente l’Economic Policy Institute, think tank americano che si occupa di contrasto alle disuguaglianze: «Le carenze si verificano quando l’offerta è inferiore alla domanda. E la domanda di insegnanti è determinata dalle decisioni dei politici su quanto la società debba investire nell’istruzione dei bambini. Se la domanda è bassa, assumere un numero sufficiente di insegnanti per soddisfarla è facile, ma non risolve il problema del sottoinvestimento nell’istruzione pubblica».

La mancanza di finanziamenti e le scelte politiche di stanziare o meno fondi, restano allora chiaramente aspetti cruciali per affrontare il tema – non nuovo, né superficiale o limitato. Ma la via economica, percorso preferenziale nel trovare una soluzione e contrastare le lacune persistenti, oggi deve però essere affiancata da un ripensamento generale. Dei percorsi di accesso e progressione delle carriere. Delle modalità di occupazione, del carico richiesto agli insegnanti. E del livello di “apprezzamento sociale” di questo tipo di impiego.

Soldi, quindi. Ma non solo

La diffusa scarsità di soldi, nello specifico per pagare adeguatamente gli insegnanti, resta la giustificazione principale che alimenta la fuga o il basso accesso alla professione. Ma un amento degli stipendi non è l’unica risposta. Chiaramente un adeguamento è necessario. In moltissimi casi gli insegnati sono sottopagati, se si confrontano i compensi di quelli che a parità di lunghezza della formazione, lavorano in altri settori. A questo però si dovrebbe accompagnare un migliore finanziamento anche dei programmi che portano all’abilitazione. Lo sta facendo, ultimo in ordine di tempo, la Pennsylvania. Il governo locale, la scorsa settimana ha annunciato un aumento dei fondi per il programma di certificazione con l’obiettivo specifico di arginare la carenza di lungo corso di personale da inserire nelle classi.

Non sono solo i bassi stipendi a rendere la professione poco attraente. Freni importanti a questo tipo di carriere sono infatti preoccupazioni come la poca stabilità dei contratti, il carico di lavoro. Il rapporto numerico insegnante-alunni per classe e le limitate prospettive di carriera. In una tempesta perfetta, mancano insegnanti “in entrata”, per ostacoli come quelli accennati, e aumentano quelli in uscita. Guardando a numeri oggettivi, e tralasciando per un momento speculazioni altre, già solo per motivi anagrafici.

In Europa per esempio, l’età media dei docenti è da tempo in crescita. Secondo gli ultimi dati Eurostat, infatti, nel 2021 dei 5,24 milioni di insegnanti tra scuola primaria e secondaria di primo e secondo grado, solo l’8% aveva meno di 30 anni. Il 39% oltre i 50. Di questi, una fetta importante è ormai arrivata al limite della pensione e lascerà, quindi, vuoti significativi entro il 2030.

Volendo dare qualche specifica, è utile guardare alla situazione del Portogallo. Qui oltre la metà degli insegnanti ha più di 50 anni e solo il 2% meno di 30. Secondo le stime, sono circa 50mila i professionisti che lasceranno l’insegnamento nei prossimi cinque anni senza che, per il momento, ci siano un numero sufficiente di laureati a coprire le posizioni tera poco vacanti. Al tema anagrafico, si aggiunge poi un alto numero di lavoratori che abbandonano la professione ben prima della pensione. Il sindacato di insegnanti Fenprof, calcolava che dal 2019 oltre 14.500 maestri su 120 o 130mila hanno lasciato la professione. Oltre il 10% di giovani insegnanti qualificati.

In Europa, comunque, Lisbona non è la sola a trovarsi in questa condizione difficile. Sarebbero infatti almeno 24 su 27 gli stati membri che al momento combattono carenze di personale a cui affidare le classi. Tra essi, la Svezia risulta la più colpita. Nella nazione entro dieci anni serviranno 153mila nuovi professionisti. Con un particolare tema per quanto riguarda la scuola materna: secondo il Nordic Teachers’ Coucil, due terzi delle regioni svedesi rischiano, a causa della mancanza di professionisti entro il 2035.

Un caso sugli altri. La Francia

È delicata anche la situazione francese. Per quanto nel Paese il tema sia da tempo discusso, le riforme proposte negli anni non sono riuscite ad portare a una soluzione soddisfacente. L’assenza di insegnanti, che ha comportato una perdita di circa 15 milioni di ore di insegnamento tra il 2022 e il 2023, sarebbe in parte dovuta ai requisiti di assunzione pubblica diventati più severi dal 2010. In parte però aggravata dai carichi ulteriori di lavoro amministrativo richiesto. E dalla necessità in molti casi di trovarsi a gestione classi con anche 30 o più studenti. Nel continente, infatti, la Francia infatti si attesta la nazione con il peggior rapporto insegnanti-alunni.

Come in gran parte dell’Europea, anche qui molti docenti segnalano di soffrire la mancanza di sostegno e poco riconoscimento dell’impegno profuso. Un malcontento generale peggiorato da stipendi che restano tra i più bassi delle nazioni OCSE*.

Alle lunghe ore di insegnamento e all’incremento di episodi di violenza si aggiunge, quasi una beffa, una certa difficoltà per i docenti francesi a dimettersi. Le procedure infatti possono essere complesse e durare mesi. Chiariva Euronews qualche mese fa: «In quanto dipendenti pubblici, la loro richiesta di lasciare l’incarico deve essere convalidata dall’autorità educativa regionale e può essere rifiutata con la motivazione che il loro servizio è necessario. Una volta che se ne vanno, perdono il loro status di dipendenti pubblici, il che significa che non possono risalire sul carro dell’insegnamento di ruolo o di qualsiasi altro lavoro governativo per sei anni».

Che fare?

La mancanza di insegnanti, che, come segnalato si aggravata nelle aree più disagiate, comporta un potenziale (ulteriore) ampliamento della forbice sociale. A livello europeo risulta difficile pensare a una soluzione comune – data la specificità di ogni realtà. Questo però non toglie la possibilità di delineare linee di intervento efficaci e urgenti. Ne mette in fila alcune la stessa OCSE nel suo documento “Education Policy Outlook” 2024. Cercando di aumentare la disponibilità di professionisti, coscienti dei limiti principali che tengono a distanza o allontanano dalle carriere nell’insegnamento, risulterebbe utile:

ridurre le barriere di ingresso ai percorsi di formazione/certificazione (lo stanno facendo per esempio in Australia, nel Regno Unito e in alcune aree degli Stati Uniti);

– supportare il rientro di personale che ha lasciato il proprio ruolo (come alcuni progetti introdotti Portogallo);

– guardare alle carenze specifiche e cercare quindi di intervenire sui limiti distintivi dei vari casi. Su tutte, per esempio, le gravi lacune nell’insegnamento delle STEM (succede nei Paesi Bassi, in Germania e in Irlanda);

– proporre percorsi alternativi di ingresso alla professione di educatore e insegnante, affiancando, per esempio, specialisti che lavorano o hanno lavorato in altri settori e che possono supportare magari per un certo ambito e un dato quantitativo di ore durante le lezioni in aula.

Il tutto, senza dimenticare, ovviamente, di intervenire migliorando i salari, supportando le carriere e rivedendo le condizioni di occupazione. Non solo in termini di contratti, ma sperimentando come in altre professioni, maggiore mobilità e flessibilità delle ore da gestire. Lo sta facendo, tra gli altri, la regione francofona del Belgio attraverso la posizione di “esperto” o “insegnante ospite”. Si permette ai professionisti di combinare l’insegnamento con impieghi in altri settori o con diversi percorsi di formazione. Per quanto rappresenti una parziale soluzione, interventi simili richiedono una certa accortezza. Non sono infatti attuabili ovunque nello stesso modo e con la stessa portata. Inoltre, seppure possano offrire una maggiore copertura delle classi, di contro, il rischio è creare interruzioni ai percorsi scolastici e frammentazione.

In chiusura, serve menzionare un’ulteriore area cruciale e alle volte poco discussa: la reputazione sociale della professione. Seppure apparentemente marginale, questo aspetto influenzerebbe grandemente le scelte lavorative in un senso o nell’altro. Non mancano infatti gli studi che indicano come gli insegnanti ritengano spesso di vedere il loro lavoro sottovalutato dalla società. Questo, oltre a peggiorare la possibilità di ritenzione dei professionisti qualificati, riduce ulteriormente il grado di attrattività necessario per spingere nuove forze a perseguire questa carriera.

Usando le osservazioni finali del documento di monitoraggio dell’OCSE: «lo sviluppo di una narrazione condivisa che metta in evidenza l’insegnamento come professione dinamica, insieme al valore e all’impatto sociale dell’insegnamento, e la garanzia che questa narrazione si allinei con le loro esperienze quotidiane, possono migliorare ulteriormente l’attrattiva della professione per attirare i candidati.»


* Per esempio, appena oltre confine, grazie a una riforma del 2023 a inizio carriera gli insegnanti in Germania sono pagati il doppio.

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