Perché abbiamo perso fiducia nel lavoro

Non è stata solo la pandemia. E non è solo una questione generazionale. Tutti noi, a livelli diversi e con modalità espressive diverse, stiamo attraversando una profonda disaffezione dal lavoro. Un disincanto che, dopo l’ondata delle grandi dimissioni, sta portando ora a una nuova fase caratterizzata da cinismo e disinteresse. «Non siamo negli anni ’70 e nessuno sale sulle barricate – afferma Luca Solari, professore di Organizzazione aziendale presso il dipartimento di Scienze sociali e politiche dell’università degli Studi di Milano – ma accade qualcosa di ben più grave: scrolliamo le spalle e diciamo “Vabbè…”».

In quel fare spallucce c’è molto più di ciò che potremmo etichettare come un’apparente scarsa voglia di “faticare”. L’impegno è stimolante e attivatore di nuove opportunità crescita e di questo ne sono consapevoli anche i più giovani. Il problema nasce perché è venuta meno la ragione per cui dovremmo “faticare”. «Non abbiamo più un perché – spiega il professore -. Per molti anni, abbiamo dato alle organizzazioni più di ciò che abbiamo ricevuto. Oggi, la Gen Z per prima, e a seguire anche le altre generazioni, si chiedono, giustamente, se abbia senso continuare così».

La risposta (negativa) è figlia di ascensori sociali che non risalgono più, di impieghi spesso non corrispondenti alle reali competenze dei candidati, di rigidità e immobilismi, oltre che di retribuzioni strozzate che impediscono ogni tipo di progettualità futura. Per tutte queste ragioni, ci distacchiamo e, al contempo, ricerchiamo una nuova sostenibilità.

Il disinteresse sul lavoro

La conferma è nei numeri. Secondo il 7° rapporto del Censis / Eudaimon, il 30,5% degli occupati in Italia si impegna nel lavoro solo lo stretto necessario rifiutando gli straordinari, non accettando chiamate o mail fuori dall’orario di lavoro ed eseguendo solo ciò che gli compete per mansione. Per il 52,1% degli intervistati, il lavoro influenza meno la vita privata rispetto al passato.

Del resto, il 43,3% dei lavoratori ritiene di ricoprire una posizione lavorativa inferiore rispetto al titolo di studio o alle competenze possedute, con uno stipendio non adeguato. Investire energie e tempo nello studio e nel lavoro, quindi, non è più ritenuto garanzia di crescita, come era in passato. Già le precedenti edizioni del Rapporto avevano evidenziato, infatti, come il 24,9% dei dirigenti, il 43,9% degli impiegati e quasi il 56,9% degli operai vivesse la frustrazione di non vedere l’impegno profuso nel lavoro ripagato da uno stipendio in grado di rispecchiare le proprie aspettative e di garantire investimenti di lungo periodo.

La sostenibilità umana

Non solo, quindi, non si accetta di lavorare più come un tempo, con le regole e le modalità tradizionali, ma si richiede alle organizzazioni una nuova assunzione di responsabilità. Valutare l’impegno di un’impresa in termini di sostenibilità umana significa misurare quanto valore aggiunto l’impresa stessa riesce a creare per le sue persone, ovvero: quanto fa crescere le loro competenze durante tutto il ciclo di vita lavorativa, quanto ne migliora lo stile di vita e il benessere psicofisico, quanto contribuisce a generare progressi verso l’equità, quanto ne migliora le opportunità di carriera e così via.

La società di consulenza globale Deloitte, intervistando 14.000 responsabili aziendali e delle risorse umane di 95 Paesi, ha rilevato che per il 76% degli intervistati è prioritario mettere al centro la sostenibilità umana, anche se solo il 46% sta realmente facendo qualcosa su questo fronte. Appena il 19% dei leader, infatti, afferma di avere metriche affidabili su come misurare “l’impatto umano” delle proprie attività.

Non solo, l’indagine afferma che il 66% degli intervistati sarebbe pronto a cambiare lavoro per migrare verso un’azienda più attenta al benessere dei lavoratori. E potrebbero farlo anche rinunciando a una parte di stipendio. Un aspetto, questo, che spesso non vale per il mercato italiano, meno mobile di altri.

«Stiamo vivendo una profonda crisi di fiducia: non crediamo più alle people strategy, non crediamo più ai purpose aziendali calati dall’alto, non crediamo più che le cose possano cambiare semplicemente cambiando azienda. Così, anziché lasciare, restiamo, ma lo facciamo abbassando il nostro livello di produttività» – continua Solari.

La distanza dalla leadership

Come evidenziato anche dalla ricerca di Deloitte, spesso la leadership ignora i reali bisogni delle persone: 9 dirigenti su 10 sostengono di fare abbastanza per il benessere delle loro persone, per lo sviluppo delle loro competenze e l’avanzamento delle loro carriere, ma questa visione trova conferma solo nel 60% dei lavoratori e delle lavoratrici.

Eppure, il legame tra produttività e wellbeing è sempre più forte. Per circa sette lavoratori/lavoratrici su 10, se l’azienda investisse di più sulla sostenibilità umana, non solo migliorerebbe la loro esperienza complessiva sul lavoro (72%) e aumenterebbe il loro coinvolgimento e la soddisfazione (71%), ma si avrebbero anche performance migliori (70%), una retention più forte (70%) e una fiducia più forte nella leadership (69%).

La distanza dai vertici, quindi, è un tema chiave. «Abbiamo tre tipi di leader: coloro che sono chiusi nella torre d’avorio e disinteressati rispetto a ciò che accade intorno, i leader che si fanno domande, ma restano immobili ed evitano di agire e, infine, ancora una minoranza, coloro che provano a innescare cambiamenti dal basso. Gli unici che – chiarisce il professore – possono avere una qualche efficacia».

Restare in un posto di lavoro, dunque, non è sinonimo di soddisfazione né di coinvolgimento. Così come, cambiare azienda non è necessariamente espressione di una condizione privilegiata. Entrambe sono scelte che testimoniano una ricerca di senso, molto più sottile e profonda rispetto a un tempo. Non accorgersi di ciò che si muove sotto la superficie, è un grande rischio: «Stiamo consumando capitale umano, perdendo tessuto organizzativo ed erodendo la cultura del lavoro. Cosa resterà? Di questo passo – conclude Solari – solo il cinismo».

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  • piero facchini |

    Letto ieri ” Metello” di Pratolini comunista . Istruttivo e bello. Dunque al tempo di mio nonno ,ferroviere e socialista ,il Padrone dava o negava il pane,e fu perfezionata la tecnica dello sciopero e della lotta di classe. Mio padre , Fascista e uomo degno,trovato l’impiego , vi lavorò tutta la vita e non lo criticò mai (aveva guerra in casa). Chi scrive ,medico di Stato, trovò soldi e rispettabilità , ma vide l’orrore delle incongruenze di esso . I miei figli ,Europei ,cambiano laoro senza problemi ,come asserisce la madre Radicale . E mo’? Come insegna QOF (il grande Orazio ) t’at cuntenti .ciao

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