Le persone non binarie esistono e la legge deve riconoscerle: con la sentenza n. 143, depositata ieri, la Corte costituzionale ha deciso le questioni di legittimità costituzionale promosse dal Tribunale di Bolzano in materia di rettificazione di attribuzione di sesso. Pur dicendo no all’introduzione tramite sentenza del genere (né maschile, né femminile) o «terzo genere», la Corte ha chiesto al Parlamento di occuparsene riconoscendo la legittimità della richiesta delle persone non binarie di essere identificate come tali ed eliminando definitivamente l’obbligo per le persone transgender di avere l’autorizzazione di un giudice prima di operarsi.
La sentenza
Con la sentenza n. 143, depositata lo scorso 23 luglio, la Corte costituzionale ha deciso le questioni di legittimità costituzionale promosse dal Tribunale di Bolzano in materia di rettificazione di attribuzione di sesso, dichiarando inammissibili le questioni sollevate nei confronti dell’art. 1 della legge n. 164 del 1982, nella parte in cui non prevede che la rettificazione possa determinare l’attribuzione di un genere “non binario” (né maschile, né femminile).
«L’eventuale introduzione di un terzo genere di stato civile avrebbe un impatto generale, che postula necessariamente un intervento legislativo di sistema, nei vari settori dell’ordinamento e per i numerosi istituti attualmente regolati con logica binaria» scrive la Corte Costituzionale. La sentenza sottolinea a riguardo che la caratterizzazione binaria (uomo-donna) coinvolge, tra l’altro, il diritto di famiglia, del lavoro e dello sport, la disciplina dello stato civile e del prenome, la conformazione dei “luoghi di contatto” (carceri, ospedali e simili).
La Corte rileva tuttavia che «la percezione dell’individuo di non appartenere né al sesso femminile, né a quello maschile – da cui nasce l’esigenza di essere riconosciuto in una identità “altra” – genera una situazione di disagio significativa rispetto al principio personalistico cui l’ordinamento costituzionale riconosce centralità (art. 2 Cost.)» e che, «nella misura in cui può indurre disparità di trattamento o compromettere il benessere psicofisico della persona, questa condizione può del pari sollevare un tema di rispetto della dignità sociale e di tutela della salute, alla luce degli artt. 3 e 32 Cost.».
«Tali considerazioni – conclude la Corte – unitamente alle indicazioni del diritto comparato e dell’Unione europea, pongono la condizione non binaria all’attenzione del legislatore, primo interprete della sensibilità sociale».
La Corte ha poi dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011, nella parte in cui prescrive l’autorizzazione del tribunale al trattamento medico-chirurgico anche qualora le modificazioni dei caratteri sessuali già intervenute siano ritenute dallo stesso tribunale sufficienti per l’accoglimento della domanda di rettificazione di attribuzione di sesso.
La Corte ha infatti osservato che, potendo il percorso di transizione di genere «compiersi già mediante trattamenti ormonali e sostegno psicologico-comportamentale, quindi anche senza un intervento di adeguamento chirurgico», la prescrizione dell’autorizzazione giudiziale di cui alla norma censurata denuncia una palese irragionevolezza, nella misura in cui sia relativa a un trattamento chirurgico che «avverrebbe comunque dopo la già disposta rettificazione».
In questi casi, il regime autorizzatorio, non essendo funzionale a determinare i presupposti della rettificazione, già verificatisi a prescindere dal trattamento chirurgico, viola l’art. 3 Cost., in quanto «non corrisponde più alla ratio legis».
La Corte riconosce l’esistenza delle persone non binarie
Nominare è fare esistere. La sentenza n.143 della Corte costituzionale è un passo avanti per i diritti perché riconosce le persone non binarie: pur dichiarando inammissibili le questioni sollevate nei confronti dell’articolo 1 della legge n. 164 del 1982 sulla rettificazione anagrafica – nella parte in cui non prevede che possa attribuire un genere «non binario» – chiede al legislatore, in quanto «primo interprete della sensibilità sociale», di occuparsene.
Questo perché, sottolinea la Consulta, «la percezione dell’individuo di non appartenere né al sesso femminile, né a quello maschile – da cui nasce l’esigenza di essere riconosciuto in una identità “altra” – genera una situazione di disagio significativa rispetto al principio personalistico cui l’ordinamento costituzionale riconosce centralità (art. 2 Cost.)».
«La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 143, segna un passo in avanti importante per i diritti delle persone trans – afferma Alessandro Zan, responsabile diritti nella segreteria nazionale del PD e neo vicepresidente della Commissione per i diritti civili del Parlamento europeo – La Consulta riconosce di fatto l’esistenza delle persone non binarie, i cui diritti e la cui dignità devono essere tutelati alla luce degli articoli 2,3 e 32 della nostra Costituzione, secondo i principi di pari dignità sociale e di tutela della salute. E lo fa anche attraverso un riferimento esplicito alle carriere alias, di fatto strumenti che consentono a tante persone di vivere pienamente e in libertà la propria esistenza».
Una necessaria revisione dell’ordinamento è ciò che la Corte indica al Parlamento poiché «l’eventuale introduzione di un terzo genere di stato civile avrebbe un impatto generale, che postula necessariamente un intervento legislativo di sistema, nei vari settori dell’ordinamento e per i numerosi istituti attualmente regolati con logica binaria». La sentenza, quindi, sottolinea l’esigenza di portare la questione all’attenzione del legislatore in quanto questione di «dignità sociale». Ma, evidenzia Angelo Schillaci, docente di diritto pubblico all’università Sapienza, la decisione è complessa: «Per quel che riguarda il riconoscimento di un terzo genere anagrafico, la Corte costituzionale si limita a rinviare la palla al legislatore, senza tuttavia formulare un monito; allo stesso tempo, tuttavia, non solo riconosce l’esistenza delle persone non binarie – e ci mancherebbe – ma riconduce la loro esperienza di vita agli articoli 2 e 3 della Costituzione. E questo è un dato sicuramente significativo. La sentenza presenta luci e ombre, ma segna senz’altro un passo avanti nel percorso verso la piena pari dignità sociale delle persone trans e non binarie».
Il “fronte” sul riconoscimento del diritto di autodeterminazione delle persone transgender dovrebbe essere comune eppure, afferma Zan, «In Italia assistiamo in questo momento a un costante attacco della destra di governo tanto ai diritti e alla dignità delle persone trans, tanto alle carriere alias negli istituti scolastici e nelle università. Il compito della politica e delle istituzioni dovrebbe essere quello di garantire una piena cittadinanza a tutte le persone, come prescrive la nostra Costituzione».
Verso il superamento della legge 164
Il punto di svolta nella quotidianità delle persone transgender arriva con la seconda parte della sentenza, dall’impatto più immediato: la Consulta ha dichiarato incostituzionale l’articolo 31, comma 4, del decreto legislativo n. 150 del 2011, che obbliga le persone transgender a ottenere l’autorizzazione del tribunale all’operazione. Questo significa che, per effettuare gli interventi chirurgici di affermazione di genere, non è più necessaria l’autorizzazione giudiziaria: le persone transgender, che siano designate come tali da una perizia psicologica, possono sottoporsi a operazione chirurgica se lo desiderano. Ma non è vincolante nel percorso di affermazione dell’identità di genere perché, osserva la Corte, il percorso di transizione di genere piò «compiersi già mediante trattamenti ormonali e sostegno psicologico-comportamentale, quindi anche senza un intervento di adeguamento chirurgico». La prescrizione dell’autorizzazione giudiziale risulterebbe così «irragionevole», nella misura in cui sia relativa a un trattamento chirurgico che «avverrebbe comunque dopo la già disposta rettificazione».
I riferimenti della Corte sulle buone pratiche fanno riferimento ad alcuni Paesi europei, come Austria, Germania, Paesi Bassi, che permettono ai loro cittadini di essere indicati come né maschi né femmine oppure come «altro» (il cosiddetto «terzo genere»). Come già accade in questi Paesi, la sentenza n. 143 elimina anche in Italia l’obbligo per le persone transgender di avere l’autorizzazione di un giudice prima di procedere con l’operazione chirurgica: sarà sufficiente la valutazione dello psicoterapeuta e del chirurgo.
«Sono molto soddisfatto. La Corte costituzionale ha riconosciuto che esiste la questione del terzo genere. E d’ora in poi tutte le persone transgender non dovranno più affrontare un lungo iter giudiziario prima di operarsi» ha detto Alexander Schuster, il legale che ha seguito il caso da cui la sentenza ha preso le mosse: quello di Aurel che, dopo aver iniziato nel 2023 una terapia ormonale a base di testosterone, ha chiesto al Tribunale di Bolzano di poter cambiare nome sui documenti. «Si inizia finalmente a demolire la legge 164 sulla rettificazione di genere – conclude Schuster – Era fantastica nel 1982, quando è stata approvata. Ma ora è obsoleta».
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