Anna Prouse siede al tavolo mentre sorseggia l’aperitivo. Ai suoi piedi si intravede la valigia del suo ultimo viaggio, uno di quelli che in queste settimane la sta portando in giro per l’Italia per presentare il suo libro Della mia guerra, della mia pace (HarperCollins). La incontriamo a Ferrara alla vigilia della sua visita al silos di Trieste, invitata da un gruppo di volontari locali che raggiunge questa cattedrale dell’abbandono dove centinaia di migranti della rotta balcanica transitano per qualche mese prima di riprendere il cammino verse altre mete europee.
Prouse è stata consulente per il governo italiano e americano a Baghdad e a Nassiriyah dal 2003 al 2011. Esperta di relazioni internazionali, ricostruzione e sviluppo delle identità nazionali, ha lavorato in zone del mondo dove la lotta al terrorismo è la chiave per il processo di democratizzazione. È Cavaliere al merito della Repubblica Italiana.
Matteo, uno dei volontari che organizza le giornate di aiuti verso Trieste, le ha scritto su Facebook dopo aver letto la sua biografia: «volevo farle conoscere la realtà del silos fatta di strati di cemento e fango. Qui si sta vicini per vincere il freddo, in una sfida continua per resistere alla disumanizzazione. In questo cantiere mai terminato, fatto da volte altissime e finestre rotte dall’usura, vivono circa 200 migranti che cercano a Trieste un luogo di accoglienza dopo la fuga da persecuzioni e guerre nei loro Paesi di origine».
Matteo non si aspettava di ricevere una risposta, eppure Prouse ha semplicemente chiesto orario e luogo di incontro, mantenendo così la sua parola. Conosce la guerra e tutto quello a cui chiede di rinunciare. Saprebbe anche descrivere il volto della morte che più di una volta le si è parata davanti.
Sopravvissuta
Racconta ad AlleyOop per esempio della fatwa (condanna a morte, ndr) che Muqtada al-Sadr, leader sciita di una delle più sanguinose milizie della guerra in Iraq, aveva deciso di scagliare contro di lei dando l’ordine di ucciderla in quanto nemica dell’Islam. O di quella volta in cui a Baghdad il suo autista all’improvviso ha inchiodato l’autocarro, ha preso il kalashnikov e le ha sparato contro uccidendo tutti i colleghi del suo team. Parla anche del tumore al cervello la cui diagnosi le aveva dato pochi mesi, almeno fino all’intervento salvavita condotto da un’equipe americana. Tra le sue mille avventure è quasi annegata nell’Eufrate per evitare di percorrere una strada pericolosa, salendo col giubbotto antiproiettile su un motoscafo pilotato da iracheni che si è poi capovolto.
La sua infanzia
«Non ho mai fatto troppo caso alla possibilità di non esserci più, perché ho iniziato un po’ a morire sin da bambina per tutto l’odio che ho ricevuto da mia madre» racconta. La sua infanzia è stata segnata da umiliazioni e punizioni quotidiane, docce fredde, retina in testa per domare i suoi capelli ricci, controllo ossessivo del cibo, minaccia della chirurgia estetica per ridurre le sue guance, nessuna gratificazione e niente che potesse avvicinarsi all’affetto di una madre.
La sua idea di famiglia è invece tutta negli occhi e nella delicatezza del padre. Giocare a tennis era un modo per fuggire da casa, sognava di diventare una campionessa come la nonna paterna Rosetta Gagliardi che nel 1920 fu una delle prime atlete italiane a partecipare alle Olimpiadi di Anversa. Ma un incidente al ginocchio ha dato un’altra direzione al suo destino: dopo la laurea in Scienze politiche è diventata delegata per la Croce Rossa. Fu così scelta per dirigere un ospedale da campo a Baghdad, durante la Seconda guerra del Golfo.
Già da ragazza Anna faceva volontariato per la Croce Rossa a Milano, provando sempre la stessa gratificazione, visto che «aiutando gli altri curava anche sé stessa». Durante gli anni di impegno in terra irachena, in cui con le sue azioni quotidiane ha dato prova alla popolazione locale che «noi occidentali non siamo tutti invasori che vogliono il male dell’Islam, ma che eravamo anche lì per il bene della gente».
La carriera
Anna Prouse è stata poi scelta dal generale americano David Petraeus come capo della ricostruzione di una provincia del Sud dell’Iraq. Oltre a importanti interventi umanitari e sanitari, tra le priorità c’era anche quella di riportare un senso di normalità nella vita dei cittadini. Così, quando le autorità ultra religiose decisero di bandire ogni forma di divertimento, tra cui i cinema, Prouse si presentò nelle piazze con un proiettore e un telo inaugurando sessioni di proiezioni gratuite per tutti e tutte.
La sua attenzione è stata poi sempre rivolta alle donne irachene, anche se non sempre le sue iniziative hanno riscosso successo. «Nel profondo Sud ho insegnato a molte donne a guidare, ma nonostante questa mia scuola di guida, continuavano a farsi accompagnare in macchina da un membro maschile della propria famiglia. Così ho pensato bene di creare una compagnia di taxi di sole autiste donne, ma è stato un flop. Alla fine mi sono sentita dire che non si fidavano delle altre donne racconta Anna.
Il suo ultimo vice in ordine di tempo è stato un donna ingegnere. «Si chiamava Queen Ur e quella posizione di leadership se la meritava, era la più brava di tutti. Solo che appena si è trovata a dover guidare una squadra di iracheni si è trasformata in un piccolo dittatore, diventando crudele, urlando e scimmiottando gli uomini. Quanto ho faticato per farle capire che non doveva perdere le sue caratteristiche femminili, ma che doveva comportarsi da leader gentile, positiva ed empatica», spiega ancora Prouse.
Lei stessa in un mondo di militari e musulmani conservatori non ha tagliato i capelli e non si è coperta il capo. Ha indossato delle ballerine dorate per non utilizzare i combat boots. Nel giubbotto antiproiettile ha poi infilato fiori di plastica per accentuare la sua femminilità e conquistare il cuore della gente. «Conservo ancora quella giacca, oggi i fiori sono tutti accartocciati, ma il motivo per cui li indossavo è stata una guida nel mio percorso. E spero abbia lasciato qualcosa anche agli altri». All’inizio è stata dura entrare in un mondo di uomini, all’interno di una squadra militare americana. «In un mondo maschile devi prima dimostrare di essere all’altezza. L’ho fatto per qualche mese, mostrando che anch’io ero tosta, come loro. Ci sono riuscita e hanno capito che si potevano fidare di me, soprattutto dopo l’attentato, quando hanno ammazzato tutti in macchina e non ho lasciato il Paese andando avanti come se niente fosse» e aggiunge di aver ricevuto anche la loro alta onorificenza di “Honorary Man”.
Una nuova vita
La sua vita poi è cambiata nel 2016. Col marito Matt, un marine conosciuto in missione a Baghdad, si è trasferita in America per andare a lavorare per Google, nella Silicon Valley. Doveva occuparsi di connettere, attraverso palloni nella stratosfera, popolazioni remote e povere, private di libertà e di molti altri diritti. Prouse aveva il compito, tra l’altro, di relazionarsi con governi complicati per ottenere la loro autorizzazione. «Volevo una vita più tranquilla, dove non cercassero di ammazzarmi in ogni circostanza, ma nella Silicon Valley mi sentivo come un pesce fuor d’acqua. E fu allora che il tumore si presentò: soffrivo continuamente di emicranie».
Una Tac all’encefalo ha evidenziato una neoplasia grande come una palla da golf, che schiacciava il nervo ottico, troppo grande e localizzato in maniera tale da renderlo inoperabile. Non c’era allora più nulla fare, a parte aspettare la morte, che per l’ennesima volta le si presentava. «Per una lottatrice come me, non avere nulla a cui aggrapparmi fu terrificante. Due settimane dopo fui contattata dal Dottor Chang, un guru dello Stanford Hospital che per mia grande fortuna aveva ricevuto la mia Tac dal pronto soccorso. Mi disse che avrebbe potuto tentare un intervento sperimentale avvertendomi che se non avesse funzionato avrei vissuto una vita da vegetale», continua Prouse.
Come sua abitudine, rispose di ‘sì’ anche quella volta. «Ritrovare mio marito al risveglio mi ha fatto capire che la vita mi stava offrendo la più importante delle nuove possibilità. Da allora voglio raccontare a tutti e a tutte la mia storia perché da tante avventure, anche le più complicate, si può uscire e quei pezzi lasciati lungo la strada di sè possono servire alla costruzione di qualcos altro».
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