Il peso e il ruolo che il lavoro ha nelle nostre vite sta radicalmente cambiando. Stiamo trasformando l’interpretazione che gli diamo, nel tentativo di riscriverne il senso. Di ieri la notizia, ad esempio, che l’amministratore delegato di Hsbc (una dei maggiori gruppi bancari al mondo) Noel Quinn ha deciso di dimettersi per «trovare un migliore equilibrio tra la mia vita personale e quella lavorativa».
Secondo i dati 2023 del Censis, per il 62,7% delle persone il lavoro non è più la priorità, tanto che il 67,7% degli occupati italiani vorrebbe ridurre il tempo che vi dedica. Tuttavia, la motivazione principale che spinge le persone a cercare un nuovo lavoro rimane la volontà di guadagnare di più e fare carriera.
Sebbene dunque rimanga centrale come fonte di reddito, il lavoro si sta spostando lateralmente, perdendo il centro che in passato lo vedeva protagonista dell’esistenza umana. Le persone oggi vogliono altro. Vogliono di più. La propria professione è diventata un “di cui”, un satellite del pianeta del proprio Io. Un io che, sempre più protagonista, determina uno dei più radicali cambiamenti del lavoro oggi. La dimensione collettiva si perde in favore di quella individuale.
L’ “io” come protagonista
Siamo nel mezzo di quella che è stata ribattezzata “me economy”, l’economia dell’individuo in cui è la persona a voler dettare il proprio equilibrio tra vita e lavoro, facendo della flessibilità e dell’autonomia dei must have. Basti pensare che sempre il Censis riporta che per l’80% degli occupati si è chiesto troppo, in passato, a chi lavorava. Oggi, è necessario pensare maggiormente a se stessi.
Ecco allora che la sempre meno partecipazione sindacale, così come la perdita del riconoscimento pubblico che il lavoro sta attraversando, non devono sorprendere. Viene meno il prestigio sociale di molte professioni e si indebolisce il senso di comunità professionale.
Appaiono lontani i tempi in cui le relazioni sociali tessevano la trama del lavoro: le principali sigle sindacali perdono ogni anno migliaia di iscritti. Dal 2011 al 2022, i tesserati sono calati di circa 850mila, di cui più della metà al Sud. Anche l’Ocse conferma un calo costante di iscrizioni dal 2013, evidenziando un trend che testimonia un passaggio sempre più radicale dal noi all’io.
Il rischio è avvitarsi su di sé, sulla propria carriera e i propri obiettivi, perdendo di vista il significato comune che appartiene al lavoro. Ogni persona si ritrova responsabile del proprio percorso, rischiando di esserlo anche eccessivamente. Se infatti la responsabilità è, da un certo punto di vista, libertà di azione, può anche tramutarsi in catena. Soprattutto per chi non la desidera o non riesce a gestirla. O ancora, non ha i mezzi per poter fare di quella responsabilità un potere, inteso come “poter fare”.
Manca una cura condivisa. Vi è carenza di azioni e pensiero orientati al noi. Ogni persona sembra remare nella propria direzione, che sia portare a casa lo stipendio a fine mese, fare carriera o ricercare le migliori condizioni di equilibrio vita-lavoro.
Il lavoro si sta parcellizzando in tanti – infiniti – micro cosmi, ognuno dei quali afferisce a una singola persona. Manca un universo condiviso e azioni orchestrate. Sempre di più, si opta per diventare solisti, anche all’interno di contesti sociali strutturati, come possono esserlo le grandi aziende.
Come tornare al “noi”?
Tornare al “noi” in una società sempre più individualista – anche al di fuori del lavoro – può essere complesso. Va riscoperto un senso di comunità che in molti contesti si è perso. Complici anche gli ultimi anni.
A tal proposito, una ricerca ha scoperto che il senso di appartenenza verso la propria organizzazione è diminuito del 37% a causa della pandemia, con un forte impatto sul coinvolgimento. Le persone che percepiscono un sentimento di comunità hanno infatti il 66% in più di probabilità di rimanere nella propria azienda.
Serve coinvolgere la leadership per ricostruire quel tessuto sociale che si è perso, a cominciare dai singoli team. È necessario ascoltare le proprie persone e offrire loro occasioni di socialità, tornare a farle sentire parte. Soluzioni che difficilmente potranno ovviare alla diffusione della “me economy”, ma che possono tuttavia controbilanciarla.
Il lavoro, come già anticipato, segue un movimento verso l’individualismo che sta interessando la società tutta. Ciononostante, è necessario non rassegnarsi: come persona diventa essenziale ricercare il confronto e la condivisione con colleghe e colleghi, come datori di lavoro e aziende, è necessario garantire sì, soluzioni su misura, ma tentare anche di non stressare eccessivamente la personalizzazione delle proposte. Si vuole rispondere puntalmente alle esigenze dei singoli, ma il rischio è perdere di vista la visione d’insieme. La “big picture” siamo noi.
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