Essere felici è un’arte?

Mi piace la parola felicità. Sarà l’accento sull’ultima sillaba. O il fatto che il suo aggettivo – felici – è di per sé neutro. E ti libera dal dover declinare al maschile o al femminile una condizione che – a ben guardare – è al di là di molti aspetti. Non solo di quello relativo al genere.

A ciò, si aggiunge il fatto che si annida in improvvisi barlumi e, allo stesso tempo, si insinua in profondità, tanto da essere sempre con noi, anche quando niente nella nostra vita sembra obiettivamente poterci rendere felice.

In un mio precedente articolo, scrivevo di quanto io abbia un rapporto ambivalente con la felicità. Non appena mi si chiede “sei felice?” smetto di esserlo. Come se per me questo sentimento esistesse solamente se taciuto. Oggi è la Giornata Internazionale della Felicità e voglio invece celebrarlo. E, soprattutto, nominarlo. Superando la mia reticenza nel parlarne. E nello scriverne.

Quella del 20 marzo è una ricorrenza istituita dall’Assemblea generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite nel 2012, partendo dal presupposto che la ricerca della felicità sia uno scopo fondamentale dell’umanità. Pertanto, ho pensato di scomodare qualche poeta e scrittore per farmi aiutare a scavare più a fondo in questa direzione.

“La felicità consiste nell’ignoranza del vero” – Giacomo Leopardi

Con il suo celebre pessimismo, Leopardi sottolinea un concetto a cui in inglese si fa riferimento con l’espressione “ignorance is bliss”. Non sapere – e dunque ignorare – è vero: in qualche modo ci protegge. Per essere felici, ogni tanto abbiamo bisogno di nasconderci, chiudere gli occhi, voltare le spalle. In Psicologia si chiama evitamento. Un meccanismo di difesa che può depauperare le nostre esperienze, ma che se è ben bilanciato e usato con consapevolezza, può anche essere un valido strumento per tirare il fiato e avvicinarsi a una sensazione di serenità anche se tutto il resto intorno a sé vacilla.

“La felicità non dipende dalle cose esterne, ma dal modo in cui le vediamo” – Lev Tolstoj

Ciò che ci succede non ha di per sé un potere generativo o distruttivo in termini di felicità. Certo, ci sono eventi universalmente riconosciuti come positivi – vincere alla lotteria, ad esempio, per utilizzare un esempio inflazionato – così come eventi considerati trasversalmente negativi – un lutto oppure la perdita del lavoro.
Eppure, possono comunque esserci persone che per la loro storia, il loro carattere e le loro credenze, interpretano i fatti diversamente. Ottenere in poco tempo molti soldi può non essere così determinante per qualcuno, così come perdere il lavoro. Pensate se a farlo è una persona che stava programmando di dimettersi perché infelice nella propria azienda.
La felicità è tale solamente in prospettiva.

“Ho deciso di essere felice perché fa bene alla mia salute” – Voltaire

Se, come anticipato, la felicità è sempre soggettiva e non dipende da ciò che di per sé avviene, è anche vero che, come suggerisce Voltaire, si può scegliere di essere felici. Di guardare sempre il famoso bicchiere mezzo pieno, insomma. Un’impostazione semplice da raccontare ma complessa da tenere. Eppure, è anche nella capacità di accontentarsi e di lasciare andare che risiede la serenità.
Di fronte a ciò che ci succede abbiamo sì una reazione automatica e istintuale – spesso legata all’insoddisfazione – ma anche – in potenziale – sempre una scelta: quella di decidere come affrontare ciò che ci succede. Da questo punto di vista, felicità e benessere sono tra loro indissolubili.

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