La lettera di Roberta, scritta a “Cara Alley” nel 2018, è fra i post di Alley oop più commentati. Roberta ci ha raccontato la sua esperienza di “risorsa dimenticata in un angolo dall’azienda”. Una situazione lavorativa “tra il bianco e il nero”, che annovera tra le “antipatiche sfumature poco etichettabili”, che non sono chiaramente definibili come mobbing o discriminazioni. Da molti anni in azienda, Roberta passa da essere considerata una figura “chiave”, di livello middle/senior, a essere “un nome in un organigramma”, senza mansioni, senza un motivo valido per non essere più coinvolta in iniziative o progetti. Dimenticata, appunto. La sua lettera, a distanza di sei anni, continua ad essere ancora letta e commentata e sono decine le testimonianze simili, analoghe, i racconti di frustrazioni e di vuoto, che tanto incidono sul benessere (che diventa malessere) personale.
Il lavoro è la realizzazione di una parte di sé
“Colpisce molto che questa lettera sia ancora così viva a distanza di tempo, racconta un sentire diffuso: andiamo a lavorare ma non sappiamo come farci percepire”, commenta Silvio Ripamonti, professore di psicologia del lavoro e delle organizzazioni all’Università Cattolica di Milano. Ma non solo: questa lettera – e i numerosi commenti – apre a una riflessione ampia, su vari aspetti: “Innanzi tutto testimonia il ribaltamento del luoghi comuni che indicano la propensione delle persone a non voler lavorare, a non volere impegnarsi e mostra invece quanto sia diffuso e importante voler cercare una realizzazione attraverso il proprio lavoro”. C’è poi un elemento che riguarda la mancanza di stioli, in non essere messo in discussione, sollecitato. “Esiste tutto un filone di studi sullo stress lavoro correlato – ricorda Ripamonti – che indica come l’assenza di sollecitazioni sul luogo di lavoro sia essa stessa causa di stress”. La capacità di imprimere un’impronta, di lasciare un segno nel lavoro che fa, dicono quindi gli studi, genera soddisfazione, mentre la mancanza di domanda e di sollecitazioni genera stress.
Cosa chiamiamo felicità?
“Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono”, scrive Primo Levi in La chiave a stella. E d’altra parte, sottolinea Ripamonti, “il poter influenzare la realtà che ci circonda ha a che fare con i bisogni fondamentali dell’uomo, come ha scritto anche Yves Clot nel testo ‘La funzione psicologica del lavoro’. Una persona che si sente poco influente anche sulle cose rispetto alle quali è competente, vive una frustrazione legata al non poter dare corso e valore a ciò che sa fare”, il che accresce l’idea che il suo agire non è percepito come importante, significativo, per gli altri come per se stesso.
Lavoro fatto di persone, non solo di strategie
Ma cosa accade in un’organizzazione che non riesce a valorizzare le sue risorse? Cosa può succedere che porta a questi risultati e come si può evitare che accada. “L’impressione è che manchi la capacità di guardare davvero le persone dentro l’organizzazione, che ci sia una grande attenzione alle strategie, ma allo stesso tempo un’incapacità di dialogare, sentire, ascoltare le persone che quelle strategie sono poi chiamate a realizzare”, osserva il professor Ripamonti. che cita un lavoro che sta realizzando insieme a colleghi e colleghe. “Abbiamo intervistato i primi livelli di varie organizzazioni internazionali – dice – e abbiamo chiesto loro in che modo agiscono nella loro attività manageriale, quali siano le loro priorità e di cosa si prendono cura”. Ebbene, commenta, “è stato sorprendente quante perone guardassero lontano, citassero strategie a breve e medio termine necessarie per far progredire l’organizzazione, ma pochi sono stati i pensieri su come costruire un legame tra queste strategie e le persone che compongono l’organizzazione, dando quindi per scontato che si sarebbero comunque adeguate, a qualunque strategia”. Poche dunque le riflessioni, i pensieri su come includere le persone in disegni organizzativi che cambiano velocemente. “A volte veniva citato il benessere delle persone, ma senza un pensiero reale su come portare avanti le politiche di benessere”. Ripamonti sottolinea che negli ultimi anni ha preso piede un’idea di welfare che ha molto a che fare con la vita fuori dal lavoro (attività di team building, esperienze condivise, certo interessanti e piacevoli ma che poco hanno a che fare con una reale capacità di comprendere e di prestare attenzione a come le persone riescano o meno a sperimentare il loro potere d’azione dentro l’organizzazione, se ci sia o no uno scollamento tra la persona e l’organizzazione.
Zanella: “Investire sulle persone conviene ai manager e all’organizzazione”
Prestare attenzione alle persone, guardarle come individui, dunque, per evitare situazioni come quella raccontata da Roberta. “Purtroppo è spesso difficile per i manager concentrarsi sulle necessità specifiche dell’inviduo. Questo non solo perché manca una cultura dell’ascolto e del feedback, ma anche perché oggettivamente molto oneroso personalizzare il proprio stile di leadership a seconda del singolo collaboratore”. Silvia Zanella, manager che da anni si occupa e scrive di tematiche legate al futuro del lavoro, riflette sulle difficoltà dentro le organizzazioni, ma sottolinea che investire sui singoli è un gioco a somma positiva. “Investire tempo in queste dimensioni potrebbe ripagare fortemente in termini di motivazione e produttività – afferma in un colloquio con Alley Oop – oltre a influire positivamente sul clima del team. Valorizzare le persone, non lasciarle sfiorire e appassire, evita anche i danni del quiet quitting, il progressivo distacco verso quello che si fa, la mancata attenzione alla qualità del lavoro, il disinteresse a farsi coinvolgere, con conseguenze anche sul resto del gruppo”.
Ripamonti: “La sfida è saper guardare il rapporto tra la persona e il suo lavoro”
Investire sui singoli e saper osservare come si rapportano al loro lavoro, è questa dunque la sfida. “In una recente ricerca – aggiunge il professor Ripamonti – è emerso un dato interessante, che ha mostrato l’emergere di tre polarità tra i manager intervistati”. Un primo gruppo di manager ha spiccatamente detto che il focus del loro lavoro è la sopravvivenza dell’organizzazione, quindi concentrarsi anche su operazioni di downsizing e riduzione del personale. Il secondo gruppo ha detto che “si vince con le persone, che la differenza la fanno le persone, concentrando l’attenzione sulla cura delle persone e sul benessere, ma marcando un certo scollamento nel rapporto con gli altri nel lavoro e le iniziative di benessere che possono far sentire meglio”. Infine il terzo gruppo, il più esiguo, ha sottolineato “l’importanza di ripensare a come le persone stanno lavorando, a cosa succede nel rapporto delle persone con il proprio lavoro. Allora, in questo senso, quando parliamo di sostenibilità è da intendersi come la capacità di comprendere come le persone stanno lavorando. E’ la qualita del lavoro in sé nelle organizzazioni – conclude – che deve essere ripresa in mano”. In questo senso, allora, il luogo di lavoro può essere ripensato come il luogo in cui le persone possono ritrovare un contatto con se stessi e allo stesso tempo con gli obiettivi dell’organizzazione per cui lavorano.
La lettera di Roberta si chiudeva così: “Se questa lettera potrà servire ad aprire gli occhi anche a una sola persona questa sera, alle sei, quando spegnerò il mio PC potrò andare a casa felice, serena e senza mal di testa perché vorrà dire che qualcosa di buono oggi l’avrò fatto”. Che è quello che si chiede, dunque al lavoro: permetterci di sentire che, oggi, qualcosa di buono lo abbiamo fatto.
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