Lavoro e parità di genere: perché il cambiamento è così lento?

Il tasso di occupazione femminile anno dopo anno cresce, sia in Europa sia in Italia, evidenziando il progredire di quella che Claudia Goldin (2006) ha definito la ”rivoluzione silenziosa”. Ma in Italia il cambiamento è troppo lento, e la rivoluzione resta incompiuta.

Anno 2002: il tasso di occupazione femminile (15-64 anni) era del 53% in Europa e del 42% in Italia. Troppo basso secondo il Consiglio europeo di Lisbona che stabilì allora un obiettivo di crescita e una strategia per raggiungerlo: per impiegare l’intero potenziale di forza lavoro dell’Unione europea il tasso di occupazione femminile avrebbe dovuto raggiungere il 60% entro il 2010.

Anno 2010: il tasso di occupazione era 57% in Europa e 46% in Italia; l’obiettivo dunque non era ancora stato raggiunto, ma fu rilanciato per il successivo decennio con la Strategia Europa 2020 che stabilì come obiettivo l’incremento del tasso di occupazione delle persone di età compresa tra 20 e 64 anni dal 69% al 75%. Il contributo maggiore a questo incremento sarebbe stato a carico della componente femminile, il cui tasso di occupazione era solo al 63%, perché quello maschile era già al 76%.

Anno 2022: l’Europa ha finalmente raggiunto l’obiettivo del 60% in origine stabilito per il 2010: il tasso di occupazione femminile è infatti pari al 65%; anche l’obiettivo di Europa 2020 è ormai quasi raggiunto (il tasso di occupazione delle persone di età compresa tra 20 e 64 anni è al 74,6%). L’Italia invece è ancora lontana dal traguardo del 2010: il tasso di occupazione femminile è fermo al 51%, il livello più basso tra tutti i Paesi europei. Un quarto di secolo è passato, ma per il nostro Paese l’obiettivo del 60% sembra ancora molto difficile da raggiungere.

Italia ultima nella classifica del Gender Equality Index

Anche il Gender Equality Index 2023 dell’Istituto europeo per le strategie di genere (Eige) vede il nostro Paese all’ultimo posto nella graduatoria per il dominio del lavoro: 65 su 100 il punteggio dell’Italia contro 85 della Svezia, 75 della Spagna, 77 della Germania e 74 della media europea.

Tra gli indicatori più significativi usati per calcolare l’indice c’è il tasso di occupazione equivalente a tempo pieno (FTE) che rende tra loro comparabili le persone occupate che lavorano un numero diverso di ore settimanali (il punteggio di un lavoratore a tempo parziale è proporzionale alle ore lavorate). Anche il tasso di occupazione così calcolato pone l’Italia in fondo alla graduatoria dei Paesi europei (Figura 1).

Figura 1 – Tasso di occupazione femminile equivalente a tempo pieno (2021).

Ns. el. su Gender Equality Index 2023

Dieci anni fa era la Grecia ad essere ultima in graduatoria (30,0%), l’Italia era penultima (30,5%), e la media europea era 38,5%; la crescita del tasso di occupazione femminile nel nostro Paese è stata troppo modesta, a fronte dell’incremento di tutti gli altri Paesi. Ci sono voluti 10 anni per spostare il tasso di occupazione da 30,5% a 31,3%: perché il cambiamento è così lento? Questa scarsa presenza femminile sul mercato del lavoro italiano potrebbe dipendere dal basso livello delle retribuzioni? I salari femminili sono in verità un po’ sotto la media europea, ma non sono i più bassi di tutti.

Le retribuzioni femminili in Italia non sono diverse dalla media europea

La retribuzione media mensile lorda delle occupate in Italia è abbastanza vicina a quella dei Paesi europei (rispettivamente 2.201 euro in Italia e 2.321 euro in media europea)[1], e anche se la posizione relativa del nostro Paese è peggiorata leggermente rispetto al 2010, le retribuzioni femminili sono comunque aumentate di 165 euro in Italia e di 274 euro in Europa.

Figura 2 – Retribuzione mensile lorda delle occupate a parità di potere d’acquisto.

Ns. el. su Gender Equality Index 2023

Se le retribuzioni non sono così distanti dalla media da giustificare questo persistente ultimo posto in classifica dei tassi di occupazione femminili, cos’altro lo spiega? Che uso fanno del loro tempo le donne italiane?

L’indagine Inapp-PLUS 2022 aggiorna i dati sull’uso del tempo

Anche se le politiche di conciliazione sono da tempo entrate stabilmente nell’agenda di tutti i Paesi dell’Unione europea[2], i dati mostrano che sono ancora le donne a farsi carico della maggior parte del lavoro familiare e, di conseguenza, ad essere sottorappresentate nel mercato del lavoro. I dati più recenti sulle differenze di genere nell’attività di cura e nel mercato del lavoro sono rilevati nell’indagine Inapp-Plus 2022 condotta dall’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche. Questi dati confermano gli squilibri che caratterizzano attualmente i ruoli di genere nel mercato del lavoro italiano, ed evidenziano in particolare le differenze nella frequenza con cui vengono svolte le attività di cura, sia della casa sia dei familiari.

L’impegno femminile in queste attività è nettamente prevalente anche quando uomini e donne sono entrambi occupati (Figura 3). Sono le donne che si occupano abitualmente di cucinare (80,2% contro 35,9% degli uomini), di pulire la casa e la cucina (71,2% contro 27,4%), della cura dei figli e dei familiari e di tutti gli adempimenti quotidiani legati alla frequenza scolastica dei figli.

Figura 3 – Frequenza con cui vengono svolte abitualmente le attività di cura per genere dalle persone occupate. Valori in %[3].

Fonte: ns. el. su dati Inapp – Rapporto Plus 2022

I cambiamenti nella struttura familiare degli ultimi anni non hanno modificato il tasso di occupazione maschile, ma hanno contenuto la crescita del tasso di occupazione femminile e rallentato la “rivoluzione silenziosa”. A causa dell’ineguale divisione del lavoro di cura tra i sessi, infatti, le donne devono sostenere un costo maggiore per rendere visibile il loro impegno sul mercato del lavoro, e anche quando scelgono di lavorare il beneficio certo della conciliazione finisce per prevalere su quello incerto della carriera.

Il punto debole in Italia è la carriera

L’indice delle prospettive di carriera[4] contenuto nel Gender Equality Index 2023 conferma infatti le difficoltà del genere femminile in questo ambito: l’Italia è al penultimo posto con 51,9 punti, contro i 61,5 punti della media europea e i 70 punti e più della Danimarca e del Lussemburgo; anche la Romania ci supera di ben 14 punti (66); solo la Grecia fa peggio di noi (51,0). I dati Eurostat 2022 ribadiscono questo risultato: in Italia le donne in posizione dirigenziale sono meno di una su 100, ultime in graduatoria anche in questa statistica, contro il 3,3% della media europea; in Portogallo triplicano, e in Francia sono 5 volte tante.

Le prospettive di carriera sono un elemento importante nella struttura degli incentivi anche dal punto di vista delle retribuzioni. La collocazione del nostro Paese nella graduatoria delle retribuzioni migliora infatti nettamente se si considerano solo le posizioni apicali. La retribuzione media mensile lorda delle dirigenti italiane supera del 31,8% la media europea: rispettivamente 5.084 euro contro 3.856 euro; solo quattro Paesi pagano alle dirigenti retribuzioni più elevate di quelle italiane: Cipro, il Belgio, il Lussemburgo e la Germania, dove la retribuzione mensile sfiora i 6.000 euro.

In conclusione

Ciò che si osserva nei dati, alla fine, è il minor tempo dedicato dalle donne al lavoro per il mercato e il maggior uso del tempo per il lavoro familiare; ma queste scelte sono solo la risposta alla struttura degli incentivi con la quale le donne si confrontano sul mercato del lavoro, che premia il tempo più del risultato.

Per fare finalmente crescere il tasso di occupazione femminile, e per evitare che le politiche di conciliazione favoriscano il permanere della disuguaglianza delle retribuzioni e delle prospettive di carriera, è necessario che la struttura degli incentivi sostenga da un lato la condivisione del lavoro familiare tra uomini e donne, e dall’altro incrementi la presenza femminile nelle posizioni apicali del sistema economico.

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[1] I dati qui commentati sono quelli della Structure of Earnings Survey (Eurostat 2018). Questa rilevazione ha il limite di non coprire tutto l’insieme degli occupati (esclude il settore agricolo, le imprese con meno di 10 addetti e tutti i dipendenti della pubblica amministrazione), ma permette il confronto tra le retribuzioni di Paesi diversi perché gli importi sono calcolati a parità di potere d’acquisto.

[2] Le politiche per la conciliazione sono state introdotte nell’ordinamento italiano con la legge 8 marzo 2000, n. 53.

[3] 100 è la somma di: mai, raramente, qualche volta a settimana, abitualmente.

[4] L’indice varia su una scala compresa tra 0 e 100 punti, dove 100 è il massimo e indica le migliori prospettive di lavoro.

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