Violenza sessista: la scuola da sola non ce la fa, servono nuovi modelli maschili

Lo stupro di Palermo, quello di Caivano, le frasi agghiaccianti degli stupratori appena maggiorenni, la ragazza che è svenuta a una festa dopo aver bevuto e gli amici che le fotografano le parti intime. Ragazze umiliate, donne trattate come oggetti, come la “statua umana” di cioccolata in un villaggio turistico. L’affollarsi delle notizie di cronaca di queste ultime settimane toglie il fiato, quasi non si riesce a stare dietro alla mole di episodi violenti, terribili, drammatici, intrisi di sessismo e di discriminazione.

Non siamo di fronte a episodi eccezionali ed unici, siamo di fronte agli aspetti più visibili della nostra cultura che alimenta il disvalore della donna a fronte della supremazia maschile, aspetti che si stanno mostrando sempre di più estremi e violenti. Allora viene spontaneo domandarsi: cosa stiamo insegnando ai nostri figli? Qual è la cultura in cui li stiamo facendo diventare adulti? La scuola che ruolo ha avuto e che ruolo può avere? Chi ha, o non ha sufficientemente, formato questi ragazzi?

La scuola, di fronte a questi episodi, è chiamata a fare sempre di più; il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara ha da poco annunciato un piano per portare il tema dell’educazione al genere tra i banchi. Ma da un’inchiesta condotta da Alley Oop tra gli insegnanti e studiosi del tema della violenza, emerge la consapevolezza di una minore incisività di questa istituzione davanti alla preponderanza dei social e all’assenza in alcuni casi o alla minor centralità della famiglia. Emerge il bisogno di creare una rete tra i vari enti, una scuola che dialoghi proficuamente con le famiglie e con la società. E che permetta di eliminare quegli sterotipi che umiliano e ingabbiano le donne nel ruolo di oggetti e gli uomini nel ruolo di macchine del sesso, con una virilità tossica e violenta che li definisce. Emerge il bisogno di avere un nuovo modello di maschilità a cui i giovani possano ispirarsi. Un modello che ad oggi manca.

Romito: “Gli stupri non hanno a che fare col sesso ma con il potere”

Quella che abbiamo visto è una violenza sessista, non sessuale, questi stupri di gruppo non hanno tanto come obiettivo il fare sesso, ma rimettere la donna al suo posto, che è un posto di oggetto, di umiliazione”. Patrizia Romito è docente di Psicologia sociale all’Università degli Studi di Trieste e da 30 anni si occupa di violenza di genere. “Questi ragazzi sono cresciuti in una cultura profondamente sessista – dice –,  noi ci aspettiamo un cambiamento nelle nuove generazioni, ma non può avvenire se gli adulti continuano a essere pieni di pregiudizi e stereotipi, se continua a prevalere una cultura generalizzata in cui la donna vale poco”. Romito, ricordando i recenti fatti di cronaca, mette in evidenza come non ci sia “nulla che abbia a che vedere con il sesso o con il piacere ma solo con l’umiliazione, col fatto che le donne vengono trattate come se non valessero nulla, viviamo in una società che legittima questo tipo di umiliazione”. Certo, poi c’è il contorno (la Rete, i social) che amplificano “il nucleo di violenza che esprime la cultura italiana di oggi, una cultura che non tollera i passi avanti – peraltro ancora limitati – che le donne hanno fatto e stanno facendo e vuole ‘rimetterle al loro posto'”.

 Che uomini stiamo crescendo?

L’episodio di Palermo è quello che ha avuto maggiore eco mediatica, sia per la giovane età degli stupratori e della vittima, che per la quantità di informazioni trapelate. “In questo caso vediamo una dinamica di gruppo maschile che permette ai ragazzi il rispecchiamento, vedono così confermato il loro modello di maschilità tradizionale, di aggressività e sessualità sempre disponibile”, osserva il Giuseppe Burgio, professore di Pedagogia all’Università di Enna “Kore”. Un modello tipicamente patriarcale che, da una parte, è sempre più in crisi, dall’altra in assenza di modelli maschili alternativi, viene sposato con ancora maggiore forza: “Vediamo alcuni giovani diventare più realisti del re, esasperano i tratti più tossici della maschilità tradizionale, per incarnarla pubblicamente”. E il pubblico è fondamentale, soprattutto in una fase come l’adolescenza: “Non sorprende che tutto questo avvenga in gruppo – mette in evidenza Erika Bernacchi, ricercatrice presso l’Istituto degli Innocenti di Firenze – perché è proprio il gruppo che conferma che sei maschio”, secondo quei canoni di supremazia sulla donna che la cultura continua a tramandare. “La maschilità diventa così una pratica dell’inadeguatezza: da adolescente devi costantemente dimostrare che sei maschio, soprattutto ai tuoi pari, con un modello virile, competitivo, che ti vuole sempre attivo sessualmente. Se non ti conformi sei fuori dal gruppo. E la dinamica che si cela dietro un caso come quello che abbiamo visto – spiega Bernacchi –, non è tanto un’eccezione, purtroppo è una regola che in questo caso ha avuto un esito particolarmente violento. E’ la dinamica che chiamano vigilanza sulla maschilità: chi non si comporta secondo le regole viene escluso. Ma questa idea di maschilità è una costruzione sociale ed è necessario rivederla“.

Il dialogo tra scuola e famiglia a volte si spezza, bisogna ricostruirlo

Perseguendo questo obiettivo, cioè quello di fornire modelli sani da seguire, la scuola ha senz’altro un ruolo importante. Da Milano a Noto, da Venezia a Catania, dalla piccola provincia del Nord ai paesi più a Sud d’Italia, gli insegnanti hanno ben chiaro il problema delle nuove generazioni a relazionarsi, ad affrontare la realtà e le difficoltà, a vivere una società equa e senza disparità tra i sessi. Ci sono realtà, racconta Donata Munafò che insegna italiano in una scuola media del siracusano, al Sud del Sud come dice lei, “dove il 90% delle famiglie è improntato a una cultura patriarcale ed è quindi difficile, anche per l’insegnante più aperto, far passare messaggi diversi”.

Quello che notano alcuni insegnanti è che in alcuni casi si interrompe il rapporto di fiducia tra la famiglia e la scuola. Rendendo più difficile qualsiasi intervento. Questo vuol dire che, almeno con alcune famiglie, gli insegnanti si trovano di fronte a un muro di gomma, soprattutto quando si trovano ad aver a che fare con persone che hanno culture diverse dalla nostra e non hanno intenzione di confrontarsi e integrarsi. Rosaria Floridia insegna in una scuola primaria di Castellanza, in provincia di Varese e nota come, fin da piccoli, c’è la differenza tra i bambini seguiti dalle famiglie e quelli meno seguiti e controllati: “All’interno di tutte le classi ci sono genitori con i quali si riesce a relazionarsi sulla situazione dei figli e altri che fanno opposizione su tutto”. L’impronta ricevuta o meno in famiglia si fa sentire anche alle superiori.  “I ragazzi seguiti dalle famiglie hanno un modo di relazionarsi sano tra di loro e con gli insegnanti; diversamente avviene quando invece la famiglia alle spalle è assente o è improntata a una mentalità patriarcale e maschilista”, racconta Arianna Aprile, docente di Chimica al liceo scientifico a Milano. Francesca Romana Grande che insegna a Cavlino Trevin in provincia di Venezia, sottolinea l’importanza del dialogo costruttivo tra famiglia e scuola: “I ragazzi non hanno bisogno di sentirsi fare paternali. Hanno bisogno di sentire che a guidarli ci siano adulti che offrono loro esempi concreti di vita,  attraverso il dialogo rispettoso pur nella diversità di opinione”.

Scuola e famiglia travolte dalla pandemia, cresce ruolo dei social

Ad aggravare una realtà già difficile, c’è stato il ruolo centrale dei social nella vita dei ragazzi e delle ragazze, un ruolo troppo spesso non compreso e sottovalutato dagli adulti e quasi sempre completamente senza controllo. La scuola e la famiglia che ruolo hanno, quando l’educazione sessuale avviene soprattutto tramite la pornografia, a cui i ragazzi hanno accesso liberatamente sul web? Da poco è entrato in vigore il Dsa (il Digital service act ) con, tra l’altro, più tutele per i minori, ma determinante, rispetto a restrizioni messe dall’alto, resta il ruolo delle famiglie nel rendere consapevole l’uso dei cellulari e controllarne l’utilizzo. Gli effetti dell’esposizione sui social è stata evidente nel caso di Palermo, con migliaia di persone che cercavano il video dello stupro su TikTok, video registrato per finire dove? Ma anche con messaggi di sostegno alla ragazza sul suo profilo, una miriade di commenti, messaggi d’affetto, insinuazioni ma anche insulti. Alla fine lei dice su Instagram: “Sono stanca, mi state portando alla morte”.  Commenta Grazia Loria, insegnante di italiano all’I.T. Archimede Catania: “Scuola e famiglia sono state travolte dalla pandemia, C’è un prima e un dopo. Con i ragazzi chiusi nelle loro camere è tutto cambiato, sono sprofondati nel mondo virtuale e nel deep web che hanno ‘mangiato’ le loro emozioni. Le famiglie, a volte per necessità, hanno accettato che i ragazzi si rinchiudessero nel mondo dei social. E il rientro a scuola ha fatto emergere un mondo completamente cambiato, un’emotività diversa”.

“I ragazzi sono fragili e bisognosi di una guida al discernimento, serve una rete”

In varie scuole ci sono già tanti esempi di corsi educativi all’affettività e alla sessualità, a partire, con i linguaggi consoni,  dalle scuole elementari. Molto spesso si tratta però di progetti a termine, con fondi non strutturali e che non garantiscono la continuità necessaria. Non solo, la domanda da farsi è: ci sono gli insegnanti adeguatamente formati a supportare tali percorsi e a seguire i ragazzi e le ragazze? Probabilmente si tratta di casi isolati, ma ci sono ancora esempi di professori e professoresse che ritengono che i ragazzi vadano instradati verso le facoltà scientifiche e le materie Stem mentre le ragazze debbano seguire prevalentemente gli studi letterari e umanistici, per esempio. Davanti alla richiesta di un ruolo maggiore da parte della scuola, “il rischio – spiega Paolo Randazzo, docente di greco e latino al liceo classico di Noto e critico teatrale – è avere una scuola più squilibrata sul versante dell’educazione e della sperimentazione didattica, che su quello dell’istruzione e della solidità culturale, una scuola che spinge gli insegnanti a essere educatori, intervenendo da supplenti in ambiti trascurati da famiglie, società e politica. Un social è più potente della comunicazione scolastica e ragazzi e ragazze spesso si procurano la loro educazione affettiva e sessuale attraverso social e pornografia. La scuola deve funzionare come istituzione inclusiva, esemplare e presente e in essa si deve pensare anzitutto a insegnare e non a fare sperimentazioni sulla pelle degli insegnanti e dei ragazzi e delle ragazze». Sintetizza Giusi Burgaretta, insegnante di latino e italiano al liceo scientifico di Avola: “Per raggiungere l’obiettivo serve una rete tra i vari enti in campo, come la famiglia e la scuola. Nella mia esperienza mi sono resa conto che i ragazzi di oggi hanno tante fragilità, occorre stimolare il loro senso critico, guidandoli  e rendendoli meno fragili, aiutandoli a saper leggere i messaggi che arrivano dall’esterno, con spirito di discernimento, libero, critico”.

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  • Giuseppe Scalas |

    Quello che non si capisce è che il programma implicito che si legge qui, ovvero continurare con la femminilizzazione dei maschi, è causa, parte e prosecuzione del problema. Il discorso è comunque troppo articolato per essere affrontato in un commento.

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