Conflitto etnico, se io vinco tu perdi

Tra poche settimane sposerò un uomo bianco. Ieri mattina con il mio compagno abbiamo ironizzato, un po’ con il cuore pesante, sulla frase del Ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida:

“Non possiamo arrenderci all’idea della sostituzione etnica: gli italiani fanno meno figli, quindi li sostituiamo con qualcun altro”.

Abbiamo ironizzato su questa incredibile contraddizione. Una coppia di italiani decide di sposarsi, ma questo matrimonio è potenzialmente il simbolo dell’avvicinarsi di una supremazia nera. Fa ridere, ma fa anche riflettere. Perché l’ironia dolorosa di due persone piene di speranze e ambizioni non è solo una battuta, ma è la sorprendente realtà che occupa le prime pagine di tutti i giornali.

Le parole sono specchio della cultura

Il flusso di coscienza è sempre lo stesso: parto da “non è possibile”, passando per “magari non si è reso conto di ciò che ha detto” o “forse me la prendo troppo”, fino a “deve esserci una ragione, un motivo”. Ma le parole sono lo specchio della nostra cultura, delle conversazioni da bar con amici e colleghi, di pensieri e riflessioni. Sono figlie della nostra storia e per questo non possono “scappare”.

Conduco in modo amatoriale studi etnografici sull’etnia praticamente da quando sono stata in grado di sentire, osservare, pensare. E poi non ho mai smesso. Ieri mattina ho riaperto la mia tesi di laurea: “Il contatto inter-gruppo per la promozione di una consapevolezza sul pregiudizio etnico. Una ricerca-azione tra i giovani europei”. Lo faccio spesso in realtà, di rifugiarmi nella mia tesi o in pubblicazioni scientifiche su razza e etnia. Lo faccio tutte quelle volte in cui ho bisogno di trovare un significato, di dare senso alla realtà, di trovare una ragione.

Rifugiarsi nella scienza e nella letteratura secondo me è molto sano, è un modo semplice per fare cultura. E quindi ripartiamo dalle origini.

Razza, etnia e nazionalità non sono sinonimi

Qualche settimana fa qualcuno mi ha chiesto “mi ricordi la tua nazionalità?”. Respiro profondo, contare fino a dieci, realizzare che per una serie infinita di motivi non posso rispondere male. “La mia nazionalità è italiana ma ho origini ivoriane da parte di mio padre”. Rispondere solo che sono italiana non basta mai e lo so, quindi ho strutturato la mia risposta prevenendo la domanda successiva “Ah, si va beh, italiana. Ma intendo.. da dove vieni?”.

Ripetiamo insieme: razza, etnia e nazionalità non sono sinonimi.

La razza riguarda una serie omogenea di individui contraddistinti da comuni caratteri esteriori e ereditari, come il colore della pelle, colore dei capelli, colore degli occhi, tratti, struttura corporea. È un costrutto o un’etichetta sociale esterna, non è una scelta. È un termine poco utilizzato, perché in realtà la biologia e la genetica hanno confermato che non è possibile categorizzare le popolazioni in razze.

L’etnia è un raggruppamento umano basato sulla comunità di caratteri culturali e linguistici, come l’accento, lo stile di abbigliamento, i capelli, le restrizioni. È un costrutto sociale interno derivante da influenze esterne, è un meccanismo di scelta individuale.

La nazionalità è l’appartenenza legale a uno specifico stato, cioè la cittadinanza.

Sono i gruppi di appartenenza a determinare ciò che siamo

A quale gruppo sociale apparteniamo? “Tanti” è sicuramente la risposta più semplice.

E come li definiamo? Ci categorizziamo.

Per categorizzazione etnica si intende la tendenza a raggruppare in categorie cose e persone quando le persone vengono percepite come rappresentanti di gruppi sociali (es.: genere ed etnia). La categorizzazione di genere si sviluppa intorno ai 3 anni, quella di etnia intorno ai 4 anni. Ciò che va a determinare la categorizzazione in età infantile è l’assimilazione osservabile di norme di atteggiamento delle figure circostanti, le determinanti ambientali e il processo cognitivo.

La categorizzazione etnica non riguarda quindi il colore della pelle, ma l’insieme delle norme culturali che abbiamo interiorizzato crescendo.

Ad esempio io sono nera, cittadina italiana e la mia etnia racconta della mia prima lingua (italiana) del mio accento (romano), del mio modo di vivere la religione (cattolica, non praticante, festeggio le grandi ricorrenze).

Ad esempio mio padre è nero, cittadino italiano e la sua etnia è Dioula (è nato in Costa d’Avorio ma sappiamo che quei paesi sono stati divisi come si divide il premio della tombola). La sua etnia racconta della sua prima lingua (Diula), del suo accento, del suo modo di vivere la religione (musulmano, praticante, rituali celebrativi più tipici dell’etnia Diula che della religione).

La categorizzazione crea tensione

Essere simili o diversi fa la differenza. E sfocia in una escalation di tensioni spesso inconsapevoli.

Si parte dallo stereotipo: attribuire a un individuo caratteristiche considerate proprie di tutti o quasi i membri del gruppo a cui si appartiene. Il termine stereotipo è nato nel 1922 e faceva inizialmente riferimento al processo di stampa, nel quale veniva prodotto un calco per rendere possibile la riproduzione sulla pagina di modelli o figure.

Poi il pregiudizio: un atteggiamento di rifiuto e ostilità di una persona appartenente a un gruppo in quanto appartenente a quel gruppo. Lo psicologo Gordon Allport, nel libro “La natura del pregiudizio”, dice: “Un pregiudizio resiste attivamente a qualsiasi prova della realtà”.

Fino al razzismo: un sentimento di diffidenza verso l’altro, verso qualsiasi straniero, con la percezione spontanea che un altro conosciuto è comunque un nemico, percezione che fa scattare la fuga e l’aggressione. In una scala di violenza il razzismo spesso sfocia in rifiuto verbale, evitamento del contatto, discriminazione, aggressione fisica e sterminio.

Il conflitto etnico: se io vinco, tu perdi

Nella realtà Europea, i Paesi vittima di un maggior livello di pregiudizio sono coloro che confinano con realtà culturali molto diverse (l’Italia e la Grecia, che confinano con l’Africa, ed i paesi dell’Est, che confinano con la Russia).  Allo stesso modo i Paesi identificati in maniera negativa sono quelli che, reduci da dittature o da ordinamenti politici diversi dalla democrazia in tempi recenti, sono ritenuti meno autonomi e più influenzabili.

È nel frangente che va dalla creazione di obiettivi di gruppo al successo che si sviluppa una disparità. E le acquisizioni di un gruppo avvengono a discapito di un altro. Ancora di più quando le risorse (economiche o occupazionali) sono scarse, il timore di perdere il proprio privilegio aumenta.

Ci sono tre modalità con cui i gruppi sociali reagiscono a questo conflitto, spiegate molto bene nel libro “Appartenenza e pregiudizio. Psicologia sociale delle relazioni interetniche” di Bruno Maria Mazzara:

Opzione numero uno (anche la più rara). Il massimo profitto comune: il gruppo nel suo insieme cerca di ottenere il massimo profitto.

Opzione numero due. Il massimo profitto del gruppo di appartenenza: si cerca di favorire il profitto di solo coloro che appartengono al proprio gruppo ristretto.

Opzione numero tre. La massimizzazione della differenza. In questo caso non solo si favorisce l’ingroup (il proprio gruppo di appartenenza), ma si tende a rendere più ampio possibile lo scarto tra il proprio profitto e quello dell’outgroup (il gruppo esterno, quasi sempre il gruppo di minoranza). Per massimizzazione del profitto non si intende esclusivamente il raggiungimento di un successo economico, ma una prevalenza sociale e culturale. Il gruppo di maggioranza quindi favoreggia se stesso. Attribuisce a se tutte le caratteristiche positive e al gruppo di minoranza tutte le caratteristiche negative.

E quindi non parliamo di sostituzione etnica, ma al contrario di una attribuzione tendenziosa del gruppo di maggioranza guidata dalla paura di perdere il proprio privilegio.

Nella favola della nostra attualità, chi recita l’ingroup e chi è l’outgroup? Chi è il protagonista e chi invece il nemico? Chi rappresenta il Made in Italy? Cos’è il Made in Italy? Qual è il vero pericolo che stiamo correndo?

Dicevo qualche giorno fa a un gruppo di studenti: per ogni obiezione generata da un commento poco inclusivo che facciamo, piuttosto che difenderci o giustificarci, fermiamoci un attimo. Fermiamoci ad ascoltare il centro del nostro stomaco. Perché in quell’istante, quando nel profondo pensiamo “ma non si può più dire niente!”, c’è tutta la nostra resistenza a lasciare da parte il nostro privilegio, e dare un pezzo di profitto a qualcun altro.

C’è, oggi, una rivoluzione più silenziosa di quelle del passato. Per me è una rivoluzione fatta di ricerca, di cultura, di fact checking, di gentilezza. E forse anche di dolore. Io credo e professo fortemente questa rivoluzione. Forse non basta, ma è la rappresentazione di un’Italia in evoluzione e non in sostituzione.

***

La newsletter di Alley Oop

Ogni venerdì mattina Alley Oop arriva nella tua casella mail con le novità, le storie e le notizie della settimana. Per iscrivervi cliccate qui.

Per scrivere alla redazione di Alley Oop l’indirizzo mail è alleyoop@ilsole24ore.com

  • Marcello Guardianelli |

    Un grandissimo abbraccio a Shata e tanti auguri per il suo matrimonio e la sua vita
    Ti vogliamo bene

  Post Precedente
Post Successivo