Se anche le IA sono “un po’ psicologhe”

Può un essere umano interagire con un computer e, pur sapendolo, percepirlo come cosciente? È su questa domanda che si fonda Ex Machina, film del 2015 diretto da Alex Garland. Una sorta di test di Turing fallato, che finisce per regalare non poche sorprese e colpi di scena. Un’opera di fantasia che ricorda irrimediabilmente quello che sta succedendo nell’ultimo periodo, da quando l’azienda OpenAi ha diffuso ChatGPT, un chatbot basato su intelligenza artificiale (IA) e machine learning.

Le novità dell’intelligenza artificiale generativa
Si parla in questo caso di intelligenza artificiale generativa, ossia un tipo particolare di IA che è in grado di comporre testi come se fossero scritti da un essere umano. Si inserisce un input (prompt), generalmente sotto forma di domanda, e il sistema fornisce una risposta. L’innovazione, rispetto a una banale ricerca su Google, sta nel fatto che il contenuto generato è inedito: non si troverà pertanto cercandolo online.

Tra entusiasmi e paure, questi modelli linguistici ci stanno ponendo di fronte a una questione: si possono sostituire a un essere umano? Possono scrivere al mio posto la ricerca di scienze, piuttosto che occuparsi della stesura di una lettera? Questo articolo potrebbe essere scritto da un chatbot? (a proposito: l’immagine che lo accompagna, è stata creata dall’IA Dall-e). La questione è sfaccettata, etica e complessa. Soprattutto se questa tecnologia viene impiegata per ricercare supporto psicologico, come pare stia già accadendo.

Ormai ci sono applicazioni per meditare, fare screening sullo stato di salute mentale, acquisire maggiore consapevolezza di sé e così via. Prima di ChatGPT mancavano però strumenti in grado di intraprendere dialoghi interattivi evoluti con l’utente, simili ai messaggi di testo che si potrebbero scambiare con il proprio psicoterapeuta (umano).
Se si interroga l’IA chiedendo consigli per prendersi cura del proprio benessere psicologico, oppure domandando se ciò che si prova possa essere riconducibile all’ansia, l’intelligenza artificiale darà la sua risposta. Che il più delle volte sembrerà assolutamente sensata. E umana. Provare per credere.

Intelligente sì, ma senza il buon senso
Tuttavia, l’IA non è senziente: ciò che viene scritto, è infatti una combinazione matematica e computazionale di parole e frasi che appaiono fluide. Non c’è una “mente”, ma “solo” un algoritmo. Tanto è vero, che un professionista della salute mentale qualificato è certamente al di sopra di qualsiasi intelligenza artificiale che abbiamo oggi. In un recente articolo pubblicato su Forbes, vengono a tal proposito spiegate le ragioni per le quali non sia possibile parlare di intelligenza artificiale senziente, nonché mostrati i limiti di questa tecnologia. Una tra tutti: non esiste “buon senso” nell’IA. Essa non determina pertanto ciò che è vero o falso e pochissimi sistemi hanno controlli incrociati che permettano di garantire la veridicità di quanto scritto. Sebbene la risposta che si ottiene dal bot sia fluida e sembri veritiera, non si ha certezza che lo sia.

A questo, si aggiunge il fatto che le risposte sono generalizzate e formulate in modo da non dare indicazioni certe di ciò che è giusto o meno fare. Lasciando per altro ampio e rischioso margine di interpretazione. Ancora: l’intelligenza artificiale può offrire informazioni basate su studi scientifici che però non è in grado di citare. Da qui una serie di leciti interrogativi: avrà riassunto bene? Avrà travisato? Si sarà inventata la ricerca? Sì, possibile. È ciò che in termini tecnici si definisce infatti allucinazione dell’IA, ossia informazioni inventate computazionalmente.

Sembrerebbe dunque improbabile che l’intelligenza artificiale possa sostituire completamente il ruolo di psicologi e psicoterapeuti. Se non altro nel breve periodo. Il suo potenziale risulta tuttavia enorme e – per la maggior parte – ancora inesplorato. Vale allora la pena stare a guardare ed essere pronti per il prossimo test di Turing.

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