Gaslighting, ghosting, cherofobia: serve davvero dare un nome a tutto?

ryoji-iwata-n31jplu8_pw-unsplashLa parola dell’anno, mi dicono, è gaslighting. Non lo sapevo, frequento troppo poco i social. Sentendomi subito molto boomer corro a cercarla su Google e ne apprendo il significato, le origini e le manifestazioni: si tratta di una forma di manipolazione piscologica violenta e subdola, un vero e proprio abuso, che durante un lasso di tempo prolungato induce la vittima a mettere in dubbio la validità dei propri pensieri, la propria percezione della realtà o dei ricordi, e porta a confusione, perdita di sicurezza e autostima, incertezza delle proprie emozioni e salute mentale.

Per associazione, mi viene in mente un’altra parola, si cui qualche giorno fa parlavo con una collega: il ghosting, di cui abbiamo scritto qui, fenomeno ormai tristemente noto e che descrive il comprtamento di una persona che, per chiudere una relazione, sparisce senza spiegazioni, taglia completamente le comunicazioni, si rende irreperibile. Cosa quasi inconcepibile nel tempo della connessione globale.

La terza parola che in pochi giorni ha catalizzato la mia attenzione è stata cherofobia. Un’amica e collega mi ha chiesto se esistesse dal punto di vista clinico. Di fobie nel DSM-V (la “bibbia” degli psichiatri made in Usa) ce ne sono davvero di ogni tipo (anche l’odontofobia, per dire, che è la paura delle cure dentistiche o la tripofobia, il disgusto per le forme circolari) ma questa no. Esiste sicuramente la paura di essere felici, è una dolorosa realtà, ma non è stata ancora ufficialmente etichettata. Ecco il problema: la parcellizzazione delle etichette.

Perdere la visione d’insieme

La sensazione prevalente che ho provato con tutte e tre queste parole è stata di disagio: non certo perché i fenomeni così descritti non esistano, anzi, esistono eccome e hanno una loro rilevanza e vengono anche descritti molto bene, nei minimi dettagli. Ma è come se proprio questa lente di ingrandimento sul dettaglio faccia perdere la visione totale, così come la complessità dell’insieme. Come quando guardi in un microscopio: vedi ogni minimo dettaglio, ma rischi di non sapere di cosa.

Avete presente quando parliamo dei medici? Ultimamente la lamentela che sento più frequentemente è che non ci sono più “i medici di una volta”, quelli che vedevano il paziente nel complesso e che lo valutavano nel suo insieme. La medicina occidentale tende a sezionare, a parcellizzare, così sempre di più abbiamo specialisti formati per curare ogni singola parte del corpo. Come se queste parti non fossero in costante interazione e scambio tra di loro.

Alla ricerca della definizione

E’ così anche per le definizioni di comportamenti e di fenomeni che riguardano l’essere umano: cerchiamo definizioni sempre più precise, che includano il maggior numero possibile di dimensioni, ma ci dimentichiamo che parliamo di relazioni e di persone.

Creiamo etichette per gruppi e per fenomeni sempre più piccoli e smettiamo di guardare alla persona, alla sua storia, alla sua unicità, alla sua singola personalità. Non solo: quell’etichetta, spesso, ci basta, ci soddisfa. Una volta che diamo un nome ci pare di aver risolto, che possiamo anche fermarci qui, smettiamo di farci domande o di prenderci delle responsabilità. Soffro di cherofobia? Ah ecco cos’era, come si cura quindi? C’è qualcosa che posso prendere?

Niente di male se i nomi ci permettono di definire meglio un fenomeno, ma attenzione a non identificare il fenomeno con l’etichetta. Perché è dietro all’etichetta che c’è la persona, non sopra.

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