La felicità esiste finché non la nomini. Sei felice? Una domanda che mette in crisi anche la persona più risoluta. Tanto che a volte viene il dubbio se sia lecito o meno porla. Perché può mettere a disagio come pochi altri interrogativi sanno fare. Apre spiragli, ma spesso vere e proprie spaccature.
C’è chi pensa che la felicità sia un traguardo da raggiungere, chi da costruire, chi invece preferisce pensare che capiti e basta. Arriva all’improvviso, mescolata a un pizzico di serendipità. Nella complessità e difficoltà degli ultimi anni la felicità è stata a lungo un miraggio. E per molte persone ancora lo è. Abbiamo compreso quanto sia intrinsecamente legata al nostro benessere – in primis psicologico – e alle relazioni che tessiamo, delle quali ci circondiamo. Se servisse, a spiegarlo è anche il Grant Study di Harvard, lo studio longitudinale iniziato nel 1938 all’interno del progetto “Study of Adult Development”, che si pone l’obiettivo di comprendere i fattori che determinano un invecchiamento sano e – appunto – felice.
Italia al 31esimo posto per tasso di felicità: perché?
Eppure, sebbene siamo uno dei paesi che maggiormente attribuisce alle relazioni un ruolo predominante, l’Italia è 31esima a livello globale per quanto riguarda il tasso di felicità media. È quanto emerge dall’edizione del World Happiness Report di quest’anno. Ci si potrebbe interrogare a lungo sui perché. E le risposte sarebbero probabilmente sfaccettate e interconnesse. Una di queste potrebbe essere ricondotta a quella che in America viene definita “hustle culture”, ossia cultura legata alla performance e all’ambizione a tutti i costi. Una condizione che prosciuga il tempo a disposizione e spinge al fare piuttosto che all’essere.
Come scriveva Tiziano Terzani in tempi non sospetti:
Ormai nessuno ha più tempo per nulla. Neppure di meravigliarsi, inorridirsi, commuoversi, innamorarsi, stare con se stessi. Le scuse per non fermarci a chiedere se questo correre ci rende felici sono migliaia, e se non ci sono, siamo bravissimi a inventarle.
Le scuse per non essere felici
La domanda quindi diventa: quante scuse inventiamo per non essere felici? Quante difese costruiamo perché non ci permettiamo di sperimentare la nostra sana e giusta dose di felicità? Questo meccanismo ha addirittura un nome: cherofobia. Ossia la paura di sperimentare allegria, gioia e spensieratezza. Una vera e propria ansia che nasce nel momento in cui non si hanno problemi, difficoltà e ostacoli di fronte a sé. Che riguardino il lavoro, la famiglia o la salute. Quasi a dire: se non ci sono, c’è sicuramente qualcosa che non va. Una sensazione che per altre persone prende la forma del senso di colpa, talmente ci si assuefa al malessere emotivo e psicologico. Si percepisce di non meritare la felicità che si raggiunge e si finisce per sabotarla.
Performance e ambizione a tutti i costi
Ma l’hustle culture può attivare meccanismi ancora più subdoli, di cui è essenziale essere consapevoli per poterli arginare. Capita infatti che si ricerchi la propria soddisfazione in traguardi che ci si prefigge senza nemmeno domandarsi se siano ciò che davvero si desidera. Aspettative – più o meno grandiose – che ci si costruisce su di sé e la propria vita pur di rispettare standard e copioni dati per scontati e presi per buoni solamente perché dettati dal contesto in cui si vive o lavora.
Ecco allora che è essenziale riconoscere le cornici in cui si è immersi. Per essere felici – felici davvero – è necessario costruire la propria mappa e definire traguardi che rispecchino i propri autentici desideri. Un percorso complesso di de-costruzione. A tratti doloroso. Un processo che proprio per questo richiede il supporto di un professionista nel campo della psicologia. Perché spesso ci si affida a psicologi e psicologhe per gestire una sofferenza, che, però, a ben guardare, non è altro che un tentativo di costruire la propria felicità.
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