Che cos’è il talento, perché è naturalmente abbondante e dove si nasconde?

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Di talento si parla da molto tempo, ma in questo periodo più che mai, essendo una risorsa che appare scarsa e molto richiesta. Nel dibattito sul talento, però, si nota una certa confusione di definizioni. Che cos’è il talento? Messa da parte la metonimia che identifica il talento con la persona di talento, andiamo a vedere che cosa dice il dizionario sull’origine di questa parola. Il termine talento indicava originariamente la misura di un peso, e quindi una moneta: la parabola dei talenti di Matteo traduceva questo materiale prezioso nei talenti donati dal Signore agli esseri umani.

Si tratta dunque di una risorsa di cui le persone possono disporre, una ricchezza, e quindi non è strano che se ne discuta tanto oggi, in cui al contempo stanno emergendo sfide in tema di sostenibilità dell’umano. Le risorse infatti hanno tanto più valore quanto più sono necessarie e al tempo stesso scarse, o comunque limitate, e il talento ha sotto questo aspetto una caratteristica importante: è una risorsa per sua natura a disposizione delle persone in modo più sostenibile di altre.

Il talento infatti è una “propensione, un’attitudine, una predisposizione, una dote intellettuale rilevante, specialmente in quanto naturale”.

E’ naturalmente abbondante
Se ho un talento, in sintesi, usarlo mi fa meno fatica che usare altre capacità. Quando uso il mio talento spesso non so “che cosa” sto usando, ma quel che faccio mi viene particolarmente bene, mi fa stare bene, non esaurisce la mia energia alla stessa velocità con cui la esaurisce fare cose verso cui non ho talento. Questa caratteristica fa del talento una risorsa molto preziosa perché abbondante per chi la possiede.
Il talento non è dunque un “saper fare”: quel che so fare – e spesso quel che scelgo di fare – è piuttosto la conseguenza del mio talento. E’ nella traduzione anglosassone che il talento si è tradotto direttamente col saper fare, e quindi si parla di talento artistico, musicale, sportivo. Ma l’eccellenza in un campo non è il talento stesso, bensì la sua espressione: la stessa persona avrebbe potuto, in condizioni diverse, esprimere la propria inclinazione e capacità naturale in altri campi.

Si esprime (o si nasconde) nelle cose che siamo
Il talento si traduce quindi, diventando visibile, nelle cose che le persone scelgono di fare e quindi di essere: l’inclinazione per la musica può rendere musicisti, quella per la cura degli altri può far scegliere di studiare medicina, la dimestichezza con i calcoli può generare ingegneri. Ma sono tutte possibilità: strade possibili tra cui scegliere, e non pochi talenti vengono espressi nella dimensione privata più spesso che in quella lavorativa.
Cercando il talento delle persone è quindi bene guardare ai diversi ruoli che hanno nella propria vita. Se il ruolo lavorativo può essere frutto di compromessi o ingabbiato in definizioni troppo strette, un talento che urge avrà trovato il modo di esprimersi in altro: in un hobby, nelle relazioni familiari o amicali, nel volontariato. Una ricerca del Center for Work-Life Policy ha dimostrato che persone che rientrano nella definizione di minoranza tendono a non portare il proprio talento al lavoro, ma ad esprimerlo in altri ruoli, per esempio essendo attive nella propria comunità. Il talento non usato nel lavoro ha infatti comunque bisogno di “fiorire”: essendo un’inclinazione naturale, deve tradursi in quell’operosità che, come esseri umani, siamo naturalmente portati ad avere per realizzare noi stessi.

Il talento non è dunque un saper fare, ma quel che facciamo ne è una manifestazione. Il talento è una competenza? Di nuovo: si esprime attraverso delle capacità, e quindi le capacità sono segnali di talento, ma l’identificazione non è esatta. Saper ascoltare, saper fare di conto, saper apprendere velocemente le lingue sono le conseguenze di una predisposizione cognitiva (ed emotiva, perché l’intelligenza umana è emotiva prima ancora che cognitiva): una specie di motore che su alcune lunghezze d’onda funziona meglio che su altre. Una persona, per esempio, si accorgerà che imparare le lingue le viene facile e le dà gioia e quindi lo farà di più: la competenza è la conseguenza dell’utilizzo del suo talento. Un’altra persona si accorgerà che le riesce bene ascoltare gli altri, e quindi stabilire buone relazioni e far stare bene le persone intorno a sé. Quello che osserviamo è il comportamento conseguente all’espressione del suo talento.

Le conseguenze dell’uso del talento possono essere visibili in competenze specialistiche, ma anche in capacità trasversali – le cosiddette competenze soft. Il talento non è quindi solo nel “genio” che siamo abituati a celebrare per le sue invenzioni, intuizioni e formule, ma anche nell’umanità, nella sensibilità e nella fragilità che l’espressione di una parte così profonda delle nostre risorse comporta. Non di rado infatti, nell’esprimere un proprio talento le persone si sentono “scoperte”, più vulnerabili che mai, contraddicendo il pensiero comune che il talento renda presuntuosi o eccessivamente sicuri di sé. E allora, spesso, i talenti sono nascosti nelle cose che le persone fanno e che sono quando si sentono libere di scegliere.

Il talento si rivela anche in “come” facciamo le cose
Ad un estremo di questo motore magico del talento di ognuno vi è dunque la sua espressione, il ruolo o l’attività a cui dà origine: è visibile a chi sa cercarla e identificarla, è di solito una fioritura che provoca gioia in chi la coltiva ed è sostenibile, genera energia ed effetti positivi.
All’altro estremo c’è il modo in cui il talento viene espresso: i tratti caratteriali che danno origine ai comportamenti pratici collegati a quel talento. I tratti caratteriali sono tratti della personalità: sono aspetti strutturali, “variabili latenti (ossia non osservabili direttamente) che spiegano il comportamento umano manifesto” delle persone – sono tratti per esempio l’essere affettuosi, razionali, organizzati, ribelli, emotivi, pigri o laboriosi. Diverse teorie psicologiche presentano liste di tratti più o meno lunghe: secondo la Kellogg School of Management, 33 tratti sono sufficienti per consentire alle persone di descrivere come esprimono la maggior parte dei propri ruoli personali e lavorativi.

Il talento non è un tratto, ma i tratti possono essere indicatori di un talento: la mente umana infatti ottimizza, e noi tendiamo naturalmente a usare di più ciò che ci dà buoni risultati con meno fatica, che identifichiamo quindi come leve di efficacia del nostro comportamento. Se quindi scopriamo di noi – o vediamo negli altri – il ripetersi dello stesso tratto positivo in più contesti e ruoli, è estremamente probabile che quel tratto sia l’espressione di un talento. Per esempio: se una persona è affettuosa in ogni ruolo, è probabile che abbia un talento collegato all’intelligenza emotiva, o comunque alla sfera della cura, che nel tempo le ha dimostrato che l’essere affettuosa la rende efficace. Ma può purtroppo avvenire anche l’opposto: il talento può nascondersi in un solo ruolo – come nel caso in cui la persona non si senta libera di esprimere il proprio potenziale in alcuni contesti – e allora anche quel tratto apparirà in un solo ruolo.

Il luogo in cui si esprime il talento si traduce nel cosiddetto “preferred self”: la dimensione di noi in cui ci sentiamo pienamente noi stessi e che, secondo lo psicologo William Khan, se portata al lavoro ci renderebbe più motivati, proattivi e disponibili alle relazioni. Staremmo, insomma, portando al lavoro il nostro talento, e insieme ad esso una sorprendente abbondanza di risorse, capacità e passione, particolarmente preziosa in questa epoca di scarsità.

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