Volare in alto. Possiamo esserne capaci? Abbandonare le consuetudini, staccarci dalle zavorre delle opinioni, superare con un balzo la barriera delle certezze e tuffarci verso l’alto, con un triplo pensiero carpiato, in un mondo totalmente sconosciuto. Ma bello, dannatamente bello. Possiamo esserne capaci?
Perchè è questo che ci ha chiesto di fare Drusilla Foer con il suo monologo a Sanremo. Ci ha chiesto esplicitamente di andare oltre le nostre “convinzioni che diventano convenzioni”, e quanta grazia c’è in questo accostamento di parole, che mostra allo stesso tempo la debolezza del nostro pensiero e il modo per trovare una nuova forza. Aprendolo, il pensiero, uscendo dagli schemi. Non poteva che raccontarcelo lei, che non esiste, o almeno non come esistiamo noi.
Drusilla Foer è un’attrice, interpretata da un attore, e a un certo punto della serata si è epicamente travestita da uomo creando un “effetto inception” che da solo doveva bastare a rompere tutte le volontà di definizione e le certezze. Identità sfuggente e cangiante, ha dovuto spiegarci lei che non possiamo usare più la parola “diversità”, è arrivato il momento di superarla, andare oltre, uscire dagli imbarazzi. Se le parole sono importanti (cit.), allora smettiamo di usarle per nascondere l’incapacità di metterne in pratica i concetti. Perché, parliamoci chiaro, se l’inclusione si realizzasse in concreto anziché essere solo tema di dibattito, al tavolo degli autori di un Sanremo ci sarebbero state delle persone trans e delle persone non bianche, che avrebbero saputo come affrontare certi temi senza avvilire nessuno, senza schiantare in una vuota retorica, senza cadere nell’ennesima rassicurante ripetizione di cose già dette, già sentite, che non cambiano niente. Ma questo ancora non succede, e l’inclusione è per sua stessa intrinseca definizione sempre più una gentile concessione, e la diversità rimane diversità dalla norma. E se, vivaddio, la norma non esistesse più?
“Diversità non mi piace perché ha in sé qualcosa di comparativo e una distanza che proprio non mi convince” ha detto Drusilla Foer. “Le parole sono come le amanti quando non si amano più vanno cambiate subito. Un termine in sostituzione potrebbe essere unicità, perché tutti noi siamo capaci di coglierla nell’altro e pensiamo di esserlo. Per niente, perché per comprendere la propria unicità è necessario capire di cosa è composta, di cosa siamo fatti. Di cose belle: le ambizioni, i valori, le convinzioni, i talenti. Ma talenti e convinzioni devono essere curati. Non è facile entrare in contatto con la propria unicità ma un modo lo avrei: si prendono per mano tutte le cose che ci abitano e si portano in alto, si sollevano insieme a noi, nella purezza dell’aria, in un grande abbraccio innamorato e gridiamo: che bellezza tutte queste cose sono io”.
Che bellezza, sì. Possiamo esserne capaci? Possiamo prendere per mano questa donna immateriale, questa anima che abita un corpo, e chi se frega di che genere sia quel corpo, per provare a volare in quel luogo e scoprire tutta questa bellezza? Senza conflitti, polemiche, guerre, torti o ragioni, vedere se davvero questa idea di unicità senza celebrazione può farci fare quel salto che le parole “inclusività” e “diversità” non ci hanno fatto fare?
Perché, ad esempio, il fatto che dopo un discorso del genere, si dica che alla fine però Drusilla non è una donna, rende tutto il discorso completamente inutile. È vero, al momento è l’unica che Amedeus non ha trattato con condiscendenza e paternalismo. Ma questo è forse un problema di Amedeus e di chi l’ha trattata diversamente da come avrebbe fatto con una donna. È vero, delle co-conduttrici che sono girate in questi anni a Sanremo, è nel novero delle pochissime che hanno sul serio preso il palco, con tutta la forza e la competenza del mestiere. E per di più con eleganza e garbo. Ma questo ci racconta quanto meritasse di stare su quel palco. È vero, non è una donna, è l’alter ego di un uomo. Ma cosa significa? Di cosa stiamo parlando? Unicità, vuol dire anche che possiamo andare oltre al bisogno di creare confini e dimensioni, e che se l’identità di una persona ci mette a disagio, il disagio appartiene a chi lo prova e non va appiccicato come una zavorra a chi semplicemente è quello che è. E se il problema è che ha preso lo spazio che avrebbe dovuto essere di una donna, beh, magari riflettiamo sul fatto che gli spazi non dovrebbero essere spartiti per genere, altrimenti lo sappiamo come va a finire.
Il suo invito a volare in alto era proprio un invito ad andare al di là di tutto questo. “Io sono fortunata ad essere qui” ha detto alla fine del suo monologo. “Date un senso alla mia presenza e tentiamo l’atto rivoluzionario che è l’ascolto, di se stessi e degli altri. Doniamoci all’altro, ascoltiamoci per essere certi che le convinzioni non siano delle convenzioni. Facciamo scorrere i pensieri in libertà, senza pregiudizio e vergogna, e liberiamoci dalla prigionia dell’immobilità“.
Possiamo farlo?
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