Il cambiamento culturale necessario perché non si debba più lottare contro la violenza maschile sulle donne è in atto, ma è un cambiamento che funziona “a intermittenza“, tanto che i pregiudizi e gli stereotipi sono talmente radicati nella nostra cultura da non permettere neanche di applicare adeguatamente le leggi che abbiamo. Il giudice Fabio Roia è il presidente vicario del Tribunale di Milano, ma è anche il ‘giudice delle donne’, come lo chiamano in molti. Si occupa da sempre di contrasto alla violenza domestica, da pubblico ministero prima e da membro del Consiglio Superiore della Magistratura poi e, ancora, da giudice, studioso e formatore. Una battaglia la sua che lo ha portato a quella che racconta come la soddisfazione più grande: il 7 dicembre 2018 il Comune di Milano lo ha insignito della civica benemerenza conosciuta come “Ambrogino d’oro”. Il giudice Roia, che ha anche condiviso la sua drammatica esperienza con il Covid-19 nella prima ondata della pandemia, doopo la sentenza della Corte europea che ha condannato l’Italia per vittimizzazione secondaria, marcando quello che sarà un punto di riferimento per la giurisprudenza di qui in avanti.
Perché quella della Corte europea dei diritti dell’uomo può essere considerata una sentenza storica?
La decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo rappresenta un momento fondamentale nel mutamento della giurisdizione per tutti quei procedimenti che vedono le donne vittime di violenza. I giudici europei hanno, valutando tutto il materiale utilizzato nella fase delle indagini e del giudizio, riscontrato una grave criticità laddove la Corte di Appello di Firenze, nella motivazione che ha spiegato i motivi dell’assoluzione degli imputati valutando anche la credibilità della ragazza , ha ritenuto rilevanti “la situazione familiare della ricorrente, le sue relazioni sentimentali, il suo orientamento sessuale, o anche la sua scelta di abbigliamento, così come lo scopo delle sue attività artistiche e culturali” (paragrafo 138 della sentenza della CEDU), introducendo temi che dovevano rimanere estranei al giudizio sulla credibilità della parte lesa. Siamo stati condannati perché non riusciamo ancora ad applicare le ottime leggi che abbiamo – quella sulla violenza sessuale risale addirittura al 1996 – a causa di pregiudizi o di stereotipi che soltanto una cultura vera della competenza potrebbe azzerare. Sono tematiche che affrontiamo continuamente nei seminari di formazione. Che lo certifichi adesso la Corte europea costituisce un messaggio di autorevolezza che dovrebbe fare ancora più riflettere.
Nella sentenza si parla di stereotipi e pregiudizi che hanno guidato la Corte d’appello nella sentenza. Senza entrare nel merito dell’assoluzione degli accusati, quanto secondo lei questi stereotipi e pregiudizi sono presenti anche tra i magistrati?
La magistratura deve crescere sul piano dell’acquisizione di competenze che non appartengono alla scienza giuridica ma ad altri saperi complementari. Per giudicare la credibilità di una donna che parla di violenza bisognerebbe conoscere molto bene le caratteristiche della donna che subisce violenza, magari chiedendo di essere formati da operatrici dell’accoglienza o da psicologhe che lavorano da molti anni proprio nella presa in carico e nella osservazione delle vittime. Bisogna poi affinare la nostra laicità di giudizio soprattutto nei temi di grande sensibilità. Calamandrei diceva che molte volte il magistrato è vittima di pregiudizi che non osa confessare nemmeno a se stesso. Ritengo che una seria specializzazione possa contrastare quel fantasma del pregiudizio che purtroppo si alimenta ed è molto vivo nel nostro contesto sociale.
Cosa cambierà (o dovrebbe cambiare) dopo questa sentenza? Per esempio, nella formazione dei magistrati?
La decisione della CEDU deve rappresentare un punto di orientamento fermo ed univoco al quale devono orientarsi i dirigenti nell’organizzazione del lavoro dei magistrati, le agenzie di formazione nella prospettiva di offrire competenze multidisciplinari, i singoli magistrati che devono farsi carico di seri confronti formativi all’interno delle Reti interistituzionali nelle quali operano sul territorio. La cultura e la competenza crescono solo se ci si muove tutti insieme nella stessa direzione progettuale.
Il caso di Firenze è un caso di vittimizzazione secondaria. In quali altri modi le donne vittime di violenza vengono ri-vittimizzate nelle aule dei tribunali e nelle parole delle sentenze?
Sono forme ancora troppo presenti di vittimizzazione secondaria la lunghezza eccessiva dei procedimenti penali, l’assenza di un dialogo fra area penale e area civile della decisione, penso al problema dell’affidamento dei figli minorenni quando si verificano situazioni di violenza intrafamiliare, la mancata adozione di quegli strumenti di protezione fisica che oggi le leggi consentono di adottare quando la donna vittima violenza deve rendere testimonianza (mi riferisco al collegamento informatico in caso di particolare vulnerabilità) nonché il sistematico uso di domande giudicanti che andrebbero bandite dall’esame della vittima.
Perché le donne che subiscono violenza maschile così spesso non vengono credute?
Si sta alimentando una tendenza a non credere alle donne perché le false suggestioni delle denunce strumentali, della sua parola contro la mia, quando nel nostro sistema processuale il testimone non può mai essere paragonato all’imputato, dell’ attribuire il tutto a situazioni di “conflittualità” (termine abusato) stanno soffocando l’approccio culturale degli operatori giudiziari. Il contesto sociale non aiuta, procede ad intermittenza, le competenze non si formano ed il processo penale si trasforma in un processo alla vittima malgrado leggi nazionali e internazionali impongano un approccio totalmente diverso. In questo scenario, che comunque è molto migliorato rispetto a qualche anno fa, ci potrebbe essere anche un aumento del cosiddetto sommerso cioè di donne che preferiscono non denunciare per paura della istituzione giudiziaria. Sarebbe un disastro culturale.
Un altro tema è quello delle perizie psichiatriche: troppo spesso le sentenze si fanno a ‘colpi’ di perizie contrastanti, creando anche qui situazioni limite e vittimizzazione secondaria. Che opinione ha su questa questione?
Soprattutto nei casi di femminicidio sussiste effettivamente un rischio di medicalizzazione del processo. Quando il fatto ci appare così brutto e non leggibile da potere essere ritenuto compatibile con un comportamento accettabilmente deviante, allora tutti rifuggono nella malattia mentale. Ma se non ci sono concreti elementi accertati nel passato dell’autore della violenza che inducano a ritenere esistenti forme patologiche, il ricorso alla consulenza ed alla perizia psichiatrica diventa allora una forma di difesa estrema e di delega di decisione. Inaccettabile per il nostro sistema giudiziario. La violenza motivata da una ritenuta supremazia di genere non può mai avere cittadinanza nei disturbi mentali rilevanti sul piano forense.
La pressione mediatica sul tema negli ultimi anni è certamente aumentata. Secondo lei c’è un cambiamento culturale in corso?
Il cambiamento è in corso però procede con grande lentezza e soprattutto a intermittenza. Pensiamo ai Paesi che sono usciti dal sistema della Convenzione di Istanbul perché ritenuto troppo destabilizzante per il nucleo familiare dove la donna dovrebbe svolgere funzioni arcaiche di cura dei figli e di sostegno al ruolo del marito, oppure a certi disegni di legge in materia di affidamento dei figli minorenni che rivelavano un grande pregiudizio nei confronti delle madri separate. Penso che ci sia una ipocrisia di fondo per la quale tutti noi dobbiamo dichiarare di essere contro la violenza sulle donne. Ma nel nostro quotidiano come pratichiamo quello che urliamo il 25 novembre o l’otto di marzo ? Quando il praticato diventerà effettiva espressione del declinato allora potremo parlare di un cambiamento effettivo in essere. Fino a quel momento dobbiamo procedere con forza in un’opera di contaminazione culturale positiva che sia espressione di un gradiente di civiltà non negoziabile.
A che punto sono i lavori della Commissione femminicidio? Quali i prossimi step?
La Commissione parlamentare d’inchiesta contro il femminicidio ed ogni altra forma di violenza di genere sta ultimando tutti i lavori di ricerca che hanno interessato le cause dei femminicidi, le forme di vittimizzazione secondaria, l’applicazione dell’art. 31 della Convenzione di Istanbul nei procedimenti civili per l’affidamento dei minori. E’ stato fatto un lavoro molto serio con la lettura di numerosi atti processuali che consentiranno di formulare analisi effettive e proposte concrete. Senza potere anticipare nulla evidenzio come ancora una volta il filo rosso che unisce le criticità riscontrate riguarda l’assenza di competenze e la resistenza di molti pregiudizi e stereotipi in un settore che dovrebbe pretendere invece laicità nel ragionamento, empatia e specializzazione.
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Il Sole 24 Ore, con Alley Oop, è partner del progetto Never again, che ha come obiettivo quello di contrastare e combattere la vittimizzazione secondaria delle donne colpite dalla violenza.
NEVER AGAIN è un progetto co-finanziato dal Programma Diritti, Uguaglianza e Cittadinanza dell’Unione europea (2014-2020), GA n. 101005539. I contenuti di questo articolo sono di esclusiva responsabilità degli Autori e non riflettono il punto di vista della Commissione europea.