Il caso dell’uccisione di Michela Di Pompeo torna in aula: la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza della Corte d’Appello e ordinato quindi un nuovo procedimento di secondo grado. A chiedere questo nuovo passaggio i legali di Francesco Carrieri, dirigente bancario e fidanzato di Michela, che l’ha uccisa il 1 maggio 2017 dopo una lite. Un caso che accende un faro su una questione delicata e importante: l’utilizzo delle perizie psichiatriche nei procedimenti giudiziari come questo.
Al centro della decisione di rivedere il processo di secondo grado, infatti, c’è l’aggravante dei futili motivi. Aggravante che aveva contribuito alla condanna di primo grado, 30 anni di carcere, poi ridotta a 16 anni perché all’assassino, era stata riconosciuta la semi-infermità mentale. “Ci auguriamo che questa decisione della Cassazione non comporti una ulteriore riduzione della pena – dice l’avvocato di parte civile Luca Fontana, che rappresenta i genitori di Michela – una pena esigua, anche perché l’imputato ha goduto del rito abbreviato. Intanto significa che per la famiglia il calvario non è ancora finito“. Un calvario che dopo la violenta uccisione di Michela Di Pompeo, che fece scalpore proprio per l’accanimento e la violenza, vede la semi-infermità mentale come causa di una pena praticamente dimezzata e, forse, ancora ridotta. Ma le perizie psichiatriche, usate in questo modo, “rischiano di diventare licenze di uccidere“, secondo la psicologa Elvira Reale, responsabile del Centro di riferimento regionale di prima assistenza psicologica per le donne vittime di violenza presso l’Ospedale Cardarelli di Napoli.
I fatti
Michela Di Pompeo, professoressa della Deutsche Schule di Roma, è stata uccisa da Francesco Carrieri il 1 maggio del 2017, all’età di 47 anni. Lascia due figlie, avute dal precedente matrimonio. L’aggressione e l’uccisione è avvenuta all’alba nell’appartamento di via del Babuino a Roma dove i due convivevano. L’uomo, secondo quanto ha raccontato agli inquirenti in un primo momento, ha letto un sms sul telefonino di Michela, di un suo ex. Ha immaginato un riavvicinamento tra i due, alle cinque del mattino ha svegliato la donna e dopo un violento litigio l’ha uccisa, accanendosi. Dopo è andato a costituirsi. Nella prima deposizione racconta i fatti e dice che “aveva paura che lei lo lasciasse” a causa delle sue condizioni di salute, visto che da qualche mese era in una forte crisi a causa di problemi di lavoro.
Il 4 maggio, il giudice sente di nuovo il Carrieri e nota “un’attenzione crescente e puntuale alla descrizione dello stato confusionale in cui avrebbe agito“. Il movente di gelosia “che Carrieri aveva con chiarezza esplocotato nell’iniziale confessione (all’atto di costituirsi) e poi nel corso dell’interrogatorio al Pm viene sempre più ancorato, in maniera lucida e articolata, alla condizione di gravissima depressione di cui ha già sofferto in passato“.
Le sentenze: 30 anni prima, 16 anni in Appello
Il tema della salute mentale è al centro delle indagini da subito: Carrieri aveva avuto in passato episodi di depressione e di recente era tornato in cura da psichiatra e psicanalista, a causa della crisi lavorativa. In un primo momento lo stesso Pm aveva chiesto 12 anni, proprio sulla base della presupposta semi-infermità mentale, ma ad in seguito alla perizia d’ufficio con una analisi più approfondita dell’assassino, della sua storia clinica, dei suoi atteggiamenti nei mesi precedenti e successivi all’uccisione, ha chiesto 30 anni, constata la completa capacità di intendere e di volere dimostrata dall’uomo, nonostante non vengano negate le sue difficoltà e i suoi momenti di crisi. La richiesta è stata accolta in toto dal giudice per l’udienza preliminare Elvira Tamburelli che non ha concesso all’imputato alcuna attenuante, ma ha considerato anzi le aggravanti dei futili motivi e dell’efferatezza del fatto.
Nel processo di primo grado, l’imputato ha goduto del rito abbreviato (che dal 2019 non è più ammesso per i delitti più gravi): “Abbiamo creato un comitato, siamo scesi in piazza proprio per evitare che casi come questo possano godere dei benefici del rito abbreviato“, ricorda l’avvocato di parte civile Luca Fontana.
Nel 2019, su richiesta dei legali che sostengono la semi-infermità mentale del condannato, la Corte d’Appello riduce la pena a 16 anni. Una nuova perizia, quindi, contraria alla prima fa dire alla Corte che Carrieri “versava in condizioni tali da almeno grandemente scemare la capacità di intendere e di volere“. Confermata l’aggravante dei motivi futili (sulla quale si è aperto il ricorso in Cassazione dei legali del Carrieri). Non la gelosia, quindi, non la paura di essere lasciato ma, la “dolorosa e grave forma di depressione che lo affliggeva da mesi nella quale trovava origine e causa l compimento i dell’azione omicidiaria“, come scrivono i suoi legali nel ricorso in Cassazione. Una distorta percezione della realtà in un soggetto affetto da grave patologia psichiatrica, una profonda depressione: da qui – scrivono i legali – l’atto “violento reattivo che il periziando non era nella possibilità di controllare né di impedire“.
“Una supposta infermità mentale – dicono gli amici e amiche della vittima, riuniti in un comitato – che non gli avrebbe tolto però la capacità di pianificare, mentre era già in carcere, la riscossione da parte dell’ex moglie del suo Tfr e di fare sparire il suo patrimonio per evitare qualsiasi risarcimento per le figlie di Michela». Affermazione, questa, che trova riscontro nelle carte con cui il Gip aveva chiesto il sequestro preventivo dei beni, riscontrando di fatto che i conti erano stati svuotati.
Le perizie che decidono al posto dei giudici
Saranno ovviamente i giudici a decidere quale sia la giusta pena per l’atroce delitto di Michela Di Pompeo, quello su cui vogliamo qui riflettere è proprio l’utilizzo delle perizie in casi come questo. Che riporta anche all’utilizzo che molto spesso se ne fa nei casi di violenza di genere, ma non solo in quelli. Le perizie citate nelle sentenze sembrano, in questo come in molti altri casi, parlare di uomini diversi: uno lucido, pacato e coerente nelle parole, nei gesti e nelle azioni, attento a sottolineare alcuni aspetti del suo stato che saranno poi utili alla difesa. Dopo il delitto, molto attento a questioni pratiche come quella economica, tanto da provvedere a svuotare tutti i suoi conti correnti prima del sequestro giudiziario dei suoi beni. L’altro uomo, invece, versava in una crisi depressiva profondissima da mesi, una “grave patologia psichiatrica” che non gli permetteva di comprendere cosa stesse facendo, in quel momento, tanto da non poter impedire un delitto efferato.
“Va detta subito una cosa: nel DSM-5 (il manuale diagnostico dei disturbi psichiatrici, ndr) la depressione non comporta atti omocidiari. Ma nessun disturbo comporta di per sé l’azione omicidiaria: va vista la dinamica per capire cosa c’è nella psiche nel momento dell’atto“. La psicologa Elvira Reale spiega con attenzione che certo, uno stato alterato della mente può portare a uccidere. Ma non basta una disgnosi per dimostrare il nesso. L’atto violento, dice, si collega direttamente al disturbo “se risale a un’allucinazione o a un pensiero paranoideo che viene strutturato verso una persona. Spesso l’assassino si sente in pericolo di morte, per esempio, e allora l’uccisione dell’altro diventa l’unica modalità di difesa, in un delirio allucinatorio. Ma per capire tutto questo, per stabilre un nesso è necessario entrare dentro il delirio e la parnaoia“. La psicologa ricorda anche che “la malattia mentale, a livello internazionale (come nelle indicazioni di J. Campbell), non è considerato tra i principali fattori di rischio per le uccisioni che avvengono tra le pareti domestiche”. C’è poi un elemento ulteriore molto importante dal punto di vista clinico, secondo la dottoressa Reale: “La depressione non ha nessun correlato con l’omicidio o il femminicidio, ha un forte correlato invece con un’alta percentuale di suicidi“. La malattia mentale, di solito, “è una componente aggiuntiva e non causativa“.
Rifacendosi a un altro recente caso di cronaca, il femminicidio di Fiorinda Di Marino, la dottoressa Reale mette in evidenza il ruolo delle perizie: “In molti casi accade che il tecnico “si sostituisca” al giudice (ovviamente per delega ricevuta) e al linguaggio della giustizia si sostituisca il linguaggio tecnico (non sempre scientificamente appropriato e trasparente). A un certo punto si bypassano le prove e le testimonianze processuali e spesso, attraverso discutibili e capziose diagnosi o con l’ausilio di ancor più discutibili reattivi psicologici, si giunge alla valutazione di incapacità di intendere e volere. Si badi bene però – sottolinea – una incapacità non in tutto e per tutto: infatti l’imputato o l’omicida confesso magari può lavorare, avere famiglia e esser capace di ogni atto della vita quotidiana. Ma solo al momento dei fatti, cioè il momento dell’omicidio, era incapace. Una così specifica e chirurgica, quanto improbabile, incapacità offusca e copre ogni altra discussione su prove e testimonianze“.
Rispetto, nello specifico, al caso Di Pompeo, la dottoressa Reale si sofferma anche su un altro punto: il tema della gelosia. Centrale nella prima confessione dell’omicida, messo poi in secondo piano a favore della condizione psicopatologica. “In questo caso più che gelosia, dai resoconti pare ravvedersi un senso di controllo e di possesso da parte dell’omicida“, osserva la psicologa. Questi sì, “considerati fattori di rischio” per il femminicidio. Nel caso Di Pompeo non ci sono elementi di violenza pregressa che sono emersi dai resoconti: “Le donne uccise da uomini affetti da presunte patologie (anzi che molto spesso si autodefiniscono malati) sono a pieno titolo donne oggetti di femminicidio”, mette in evidenza la dottoressa Reale.
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