Giovanni Gastel, uno dei maggiori e più noti fotografi italiani, ci ha lasciato sabato 13 marzo: il COVID19 lo ha ucciso a 66 anni. È accaduto con una repentinità che lascia sconcertati: lo ricordo solo poche settimane fa, vitale e generoso, impegnato in alcune dirette sul suo canale Instagram.
Non intendo raccontarne qui la carriera artistica, ma sento l’esigenza di lasciare una breve testimonianza per i lettori di Alley.
Dopo una lunga gavetta grazie alla quale impara sul campo, a poco a poco, il mestiere (non era epoca, quella, di corsi e di master), si dedica alla fotografia di moda, nel cui ambito si afferma nel corso degli anni ‘80 sull’onda del grande successo del made in Italy, collaborando con riviste di primo piano come “Vogue Italia”, “Mondo Uomo” e “Mondo Donna” e realizzando memorabili campagne per le più grandi case italiane; il successo lo porta poi, negli anni ’90, a Parigi, dove lavora per marchi prestigiosi.
La sua curiosità intellettuale non gli permette di restare all’interno dei confini, per quanto dorati, di un genere, ma lo spinge verso nuove frontiere e sperimentazioni, insofferente delle limitazioni, alla ricerca di un sogno di bellezza che costituisce la cifra distintiva della sua vita, prima ancora che della sua carriera. Incurante della diffidenza verso la fotografia di moda, ancora guardata in quegli anni con il sospetto che si riserva alla parente scapestrata, frivola e superficiale da parte della fotografia seria e impegnata, otterrà la consacrazione come fotografo e artista nel 1997, con l’ampia personale alla Triennale di Milano curata dall’autorevole critico Germano Celant. Raccontava Gastel l’ammonimento di Celant in quell’occasione, di cui fece tesoro: non dire più che sei fotografo di, di moda, di still life o di chissà cos’altro, tu sei un fotografo e basta! Da quel momento Gastel entra da protagonista nel gotha dei grandi della fotografia internazionale, da Toscani a Newton, da Avedon alla Leibovitz a Scianna, e le mostre a lui dedicate, nelle sedi più disparate, non si contano.
Una delle sue più grandi passioni sarà il ritratto: di fronte al suo obiettivo sono passati negli anni attori e attrici, cantanti e politici, modelle e capi di stato, scrittori e artisti, sportivi e celebrities, tutti catturati in quell’affascinante gioco di seduzione che lui, grande charmeur, sapeva intessere loro attorno, come un ragno la sua tela. Colto, spiritoso, elegantissimo e disinvolto, piacione (sua autodefinizione, con la consueta autoironia), seduceva e poi, in pochi minuti, scattava immagini inconfondibili, nelle quali trasportava coloro che ritraeva in un mondo altro, incantato e purissimo. La sua arte ritrattistica ha avuto una grandiosa celebrazione, terminata da pochissimi giorni, nella mostra al museo Maxxi di Roma The people I like, con 200 ritratti, anzi, più propriamente, “analisi dell’essere”, come diceva per evocare quell’incontro misterioso fra il fotografo e la persona da ritrarre, la quale non si trova di fronte a uno specchio neutro, ma a un filtro attraverso il quale chi sta dall’altro lato della fotocamera la vede e la ferma in un eterno istante. Così Gastel ha intitolato la sua autobiografia (Un eterno istante. La mia vita, Electa, Milano 2015), cogliendo una delle essenze della fotografia: congelare un attimo di vita nell’immobilità dell’immagine.
Figlio di Giuseppe Gastel e Ida Visconti di Modrone, nipote di Luchino Visconti, Gastel diceva di sé con lucida consapevolezza -come ha ricordato Michele Smargiassi– “il mondo è stato generosissimo con me, sono un privilegiato di merda, ma ho cercato di rispettare me stesso e gli altri.” È questo rispetto probabilmente il tratto che rendeva inconfondibile Giovanni Gastel, forse ancor più della sua grandezza di fotografo: le numerosissime testimonianze che affollano in queste ore i media e i social network ne sono una testimonianza eloquente e fanno comprendere come, anche persone che hanno avuto fuggevolmente occasione di entrare in contatto con lui, ne siano rimaste colpite e affascinate: avere a che fare con Gastel non significava quasi mai un incrocio casuale ma un incontro, durasse pure pochi minuti, nel senso più pregnante del termine.
Tra gli insegnamenti che l’aristocratica educazione famigliare (da lui mai dissimulata né ostentata) gli aveva lasciato, Gastel raccontava quel che un giorno gli aveva detto sua madre Ida quando non era ancora maggiorenne: devi trovare il tuo modo. Al suo sguardo interrogativo e alla domanda su cosa intendesse dire, sua madre proseguì: intendo che dovrai decidere come entrare in relazione con le persone con cui avrai a che fare nella tua vita. Ricorda però che, una volta trovato il tuo modo di essere, dovrai mantenerlo, identico, con tutti, che tu abbia a che fare con il barista sotto casa o con un sovrano. Altrimenti sei una merda!
Recentemente, in un dialogo, se non ricordo male con il fotografo e amico Settimio Benedusi, Gastel aveva detto che gli sarebbe piaciuto essere ricordato come un gentiluomo. Quante altre persone, oggi, avrebbero un tale desiderio, un’aspirazione così anacronisticamente fuori moda? Eppure in questa espressione disusata, gentiluomo, che considera la virtù (altra parola dimenticata, che puzza di naftalina) della gentilezza una caratteristica fondante e distintiva dell’essere uomo, possiamo riconoscere la sigla dello stile di vita, prima che d’arte, di Giovanni Gastel. Chapeau.
***
La newsletter di Alley Oop
Ogni venerdì mattina Alley Oop arriva nella tua casella mail con le novità, le storie e le notizie della settimana. Per iscrivervi cliccate qui.