In Italia la politica fa tendenza, da un po’ di tempo persino sul vocabolario: per questo la recente comparsa sui media del termine “responsabili” in riferimento al voto sulla fiducia ha acceso un campanello di allarme in chi, come me, ritiene che le parole abbiano un significato e che, soprattutto oggi, siano in grado di far succedere cose. Fino ad oggi, l’aggettivo “responsabile” non sembra aver goduto di chiara fama nel Bel Paese, anzi: in questi anni di ricerca sulla leadership ho potuto constatare che raramente la responsabilità veniva associata all’idea del potere e, seppure spesso responsabile potesse essere un sinonimo di “capo”, altrettanto raro era che questa caratteristica venisse associata a ruoli manageriali, più noti e meglio descritti attraverso metafore belliche o sportive.
Insomma, capi guerrieri e un potere basato sulla forza e sulla determinazione hanno finito col confinare il senso di responsabilità in aree a più bassa urgenza: non per niente nelle grandi aziende la responsabilità sociale ha assunto un’identità propria e separata, con un budget e dei tempi ad hoc.
Come accade quando si esplicita un attributo comune, altrimenti sottinteso, la parola “responsabile” si presenta carica di sottintesi e collegamenti impliciti: non la si può usare alla leggera. Intanto vuol dire letteralmente “che risponde”: viene dal latino responsum, supino di respondēre «rispondere» e quindi «che può essere chiamato a rispondere di certi atti». Quindi responsabile è colui che viene chiamato a rispondere di ciò che fa, cosa che dovremmo essere tutti.
Se definiamo responsabili alcune persone, stiamo forse tacitamente affermando l’irresponsabilità di tutte le altre? Oppure al contrario, se diciamo che la responsabilità è la norma, la stiamo forse spogliando di quella dimensione valoriale che dovrebbe spingerci ad aspirare a essere sempre più responsabili, come normalmente si pensa diventando adulti? Che cosa conviene fare, dunque, con la responsabilità: normalizzarla (appiattirla, darla sempre per scontata), a rischio di perderne la specificità, connotarla (attribuendola in modo eccezionale ad alcuni e non ad altri) per sottolinearne la mancanza, oppure aprire il dibattito su questa espressione così comune, ma evidentemente carica di stereotipi?
Dal punto di vista culturale, infatti, quando ci si accorge che un termine di uso apparentemente comune ha un tale portato di non detti da rischiare di essere strumentalizzato o di creare dei tabù, significa che siamo di fronte a un ritardo della definizione rispetto alla realtà. Significa, insomma, che non siamo più d’accordo come collettività sul significato che quel termine ha, se il concetto sottostante sia desiderabile o meno, se indichi a tutti la stessa direzione. La cosa sorprende di più quando questo effetto scaturisce da vocaboli di uso quotidiano – ma l’adozione a fini strumentali in ambito politico ne è un segnale inequivocabile.
Un altro test interessante sul portato di queste anomalie culturali si può fare chiedendo a persone diverse che cosa associno a quel termine: ha una connotazione positiva o negativa, quali figure storiche o contemporanee lo incarnano, in quali situazioni quotidiane si trovano a usarlo e come? E’ sorprendente quante narrazioni diverse possono emergere: per questo leggere l’aggettivo “responsabile” sui giornali in questi giorni e in questo modo mi ha particolarmente colpita.
A causa del mio lavoro, ascolto centinaia di persone sui temi della pandemia e di come gestiscono la crescente complessità di questo periodo; proprio in questi giorni, il 73% dei partecipanti a un sondaggio della mia società che ha coinvolto 70 aziende, ha indicato come primo sentimento di fronte a quanto è avvenuto un “maggiore senso di responsabilità”. Al secondo posto è emerso il fatto di sentirsi più vicini ai propri cari, al terzo un aumento di consapevolezza.
“Non mi sento una leader – ha detto una delle partecipanti del sondaggio – Penso di dover prendere in pugno la situazione sia familiare che lavorativa e farmi forza. Ero responsabile, lo sono ancor di più”.
Le persone sono cresciute, in questa pandemia, hanno fatto leva sulle cose importanti, e hanno voluto e saputo guardarsi dentro. Perché dunque il senso di responsabilità non è uscito nella narrazione che dei cittadini hanno fatto le regole impartite in questi mesi? Siamo stati trattati in pratica come irresponsabili, che hanno bisogno di una guida al minuto per sapere cosa fare, a cui prospettare tanti sottili futuri a breve termine: a cui fornire istruzioni, ma non conoscenza.
Per un anno intero, la politica ha parlato e i media hanno narrato a dei cittadini personas a cui non si chiedeva di rispondere delle proprie azioni, di essere “responsabili”. E poi questo concetto, così essenziale alla nostra sopravvivenza e alla nostra maturità – che riguarda la consapevolezza che abbiamo delle conseguenze delle nostre azioni e la nostra capacità di risponderne – salta fuori all’ultimo minuto nell’agone politico, a connotare solo per alcune ore (sono forse già diventati “costruttori”, nel frattempo) solo alcuni politici, nel bene e nel male.
Eppure, responsabili dovrebbero essere tutti i politici (per definizione) a cui è stata attribuita una chiara area di potere di cui rispondere. E da responsabili dovremmo essere trattati tutti, noi cittadini, perché tutti lo siamo; e più la vita si fa difficile e complessa, più ci spinge a riconoscere qual è l’area in cui ci interessa e sappiamo far succedere le cose – sentendoci pronti a rispondere di conseguenza.