A chi non è mai capitato di desiderare di conoscere il proprio quoziente intellettivo (QI)? In quante organizzazioni questo indicatore è stato considerato predittivo delle possibilità di successo? Per molte persone è stato, ed è ancora, il simbolo delle proprie capacità, del proprio potenziale e delle proprie possibilità di sviluppo. Ma è davvero così?
Da anni la definizione di intelligenza è una sfida che appassiona numerosi scienziati e luminari in diverse discipline di studio: dalla psicologia alle neuroscienze, dalla biologia alla medicina ci si interroga su come declinare al meglio questo concetto.
Attorno al QI e alla sua misurazione in passato si sono generati ottimismo e fiducia grazie alla teoria dell’effetto Flynn. Secondo gli studi dello scienziato neozelandese James Robert Flynn, il quoziente intellettivo della popolazione di alcuni Paesi ha presentato nel corso della seconda metà del’900 un trend crescente. Lo studio, pubblicato nel 1987 sul Psychological Bulletin, poneva a confronto le serie storiche dei risultati di test d’intelligenza effettuati su alcuni bambini di diversi Paesi rilevando come, in un arco temporale di 25 anni, il quoziente intellettivo dei ragazzi fosse aumentato mediamente di 8 punti. La deduzione di Flynn fu che nelle nazioni più “sviluppate”, indipendentemente dalla cultura di appartenenza, il QI aumentasse da una generazione all’altra in una misura che oscilla tra i 5 e i 25 punti. Da ciò si iniziò a pensare alla possibilità di una progressione infinita sulla scala dell’intelligenza.
Questa euforia è tuttavia diminuita all’inizio degli anni 2000, quando sulla base di alcune ricerche empiriche l’Università di Oslo ha riscontrato che tra il 1970 e il 1993 l’effetto Flynn aveva ridotto la sua portata. Negli anni successivi questo rallentamento ha trovato ulteriori conferme, fino alle considerazioni più recenti nelle quali si evidenzia come il trend si sia in realtà capovolto e come da un anno all’altro l’indicatore sembri diminuire mediamente di una percentuale che varia tra lo 0,25 e lo 0,50.
Fortunatamente, nel corso degli ultimi anni gli approcci allo studio dell’intelligenza sono mutati andandone a declinare un concetto più ampio. Già nel 1983, Howard Gardner, psicologo statunitense allora ricercatore di Harvard, sosteneva che l’intelligenza non fosse un costrutto raggruppabile e misurabile numericamente, ma fosse composta da diversi fattori tra loro indipendenti. Partendo da una critica alle teorie più diffuse in quegli anni, reputate limitate e poco aggiornate, Gardner è riuscito a riconoscere, attraverso un approfondito lavoro di ricerca, la presenza di differenti fattori che caratterizzano l’intelligenza. Questi risultati hanno consentito di delineare un concetto molto più ricco della facoltà mentale e, proprio su queste basi, sono state individuate ben sette abilità intellettive, alle quali negli anni sono seguite ulteriori declinazioni. Fu proprio Howard Gardner a racchiudere queste riflessioni in quella che lui stesso definì teoria delle Intelligenze multiple.
Il capovolgimento dell’effetto Flynn può essere osservato senza preoccupazione grazie al lavoro di Gardner oggi tra i più accreditati. I test usati per misurare il QI sono sempre stati volti a rilevare solamente due tipologie di intelligenza: quella linguistica e quella logico-matematica. La teoria delle intelligenze multiple ne evidenzia invece almeno altre cinque:
- l’intelligenza spaziale;
- l’intelligenza interpersonale o sociale;
- l’intelligenza introspettiva;
- l’intelligenza cinestetica o procedurale;
- l’intelligenza musicale.
L’inversione dell’effetto Flynn può quindi offrire solo un dato parziale e il QI non può essere considerato un parametro unico ed universale per identificare le possibilità di crescita e di successo delle persone. Può essere forse inserito in una valutazione più completa e più complessa che, attraverso l’integrazione di diversi strumenti e diverse tipologie di osservazione, consideri chiaramente anche l’evoluzione sociale e culturale nel corso degli anni.
Il mondo del lavoro ha già saputo mettere in evidenza come una persona sia oggi molto di più del suo funzionamento cognitivo e linguistico: gli individui sono relazione, innovazione, capacità di apprendere, emozione, introspezione, passione, curiosità e motivazione. Il concetto stesso di professionalità si è ampliato nel corso degli anni andando a privilegiare contenuti trasversali e approcci interfunzionali, che andassero a rafforzare e ad integrare le conoscenze specialistiche. La complessità crescente dei mercati e la sempre maggior dinamicità delle organizzazioni portano ad una molteplicità di stimoli e sfide all’interno del mondo del lavoro. Queste possono essere affrontate con successo proprio grazie ad una molteplicità di risorse, che non sempre rientrano nella sfera del tradizionale QI.
Tutto questo ci fa pensare con ottimismo che l’apparente diminuzione del quoziente intellettivo nella sua accezione iniziale possa essere correlato alla crescita di tutta una serie di altre caratteristiche che completano “il modo di essere persone” negli anni duemila. Una lettura più estesa delle facoltà intellettuali, slegata da un singolo costrutto numerico, permette inoltre di comprendere, rafforzare e valorizzare le intelligenze più rispondenti al proprio percorso professionale o personale.
Difficile pensare che il talento di ognuno di noi, la capacità di affrontare le sfide, la volontà di migliorarsi attraverso le sconfitte e l’attitudine a costruire il nostro percorso possano davvero essere ricondotti a un numero. Siamo ancora così sicuri di voler conoscere il nostro QI?