Che cosa nasconde la parola “smart” e perché va maneggiata con cura

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Dovremmo insospettirci ogni volta che viene messo l’aggettivo “smart” davanti a un  termine di uso comune. Quel sostantivo, che prima non era né negativamente né positivamente connotato, assume infatti come conseguenza la caratteristica implicita di essere l’opposto di smart. Diventa “stupid”.

Pensiamo ai primi anni del 2000, in cui abbiamo iniziato ad avere gli smartphone: oggi i telefoni sono tutti smart e sono rarissimi i casi di “stupidphone”, un telefono che telefona e basta. Se si digita “smart” su google, questo propone in automatico una serie di associazioni: esistono lo smart working, la smart box, la smart leadership, ma anche lo smart food, gli smart plan, le smart pricing policies… lo smartphone non esce neanche più: nel caso dei telefoni, la versione smart ha evidentemente rimpiazzato del tutto la vecchia versione. E anche con gli altri termini immaginiamo che sarà prima o poi così: chi potrebbe, infatti, voler fare delle policy di prezzo banali, o mangiare dei cibi stupidi?

In questo modo, se un concetto non funziona più o ha accumulato nel tempo una serie di caratteristiche disfunzionali, piuttosto che prenderci l’onere di rinnovarne la definizione, lo riposizioniamo per assenza: c’è ancora, ma non è più smart, perché di smart c’è qualcos’altro, che è smart in modo esplicito. Che c’è di male?

C’è una noncuranza, in questo processo, che lo rende al tempo stesso leggero e pericoloso. Diciamoci pure che l’area smart è quella dell’innovazione: che qui collochiamo provvisoriamente i concetti che hanno bisogno di essere svecchiati, spogliati di incrostazioni delle ere precedenti per fare spazio a tutto ciò che di nuovo sappiamo e vogliamo. Ma se la smart leadership è quella di chi delega, empatizza e semplifica, oppure quella di chi sa essere intellettualmente umile – riporto qui i primi due risultati che mi dà google se scrivo “smart leadership” – allora l’altra leadership che fa? Com’è?

Lasciamo alla maggioranza dei leader la possibilità di restare ancorati al vecchio modello, mentre una minoranza di “early adopter” può scrivere nel proprio CV di essere uno smart leader? Possiamo scegliere quando ci serve un leader smart e quando uno no? Ma soprattutto: quando e chi ha deciso che cosa è smart?

Le parole guidano il cambiamento: le definizioni danno un nome alle cose e, facendolo, ne segnano i confini. In questi mesi ci siamo chiesti in tanti e tanto se quello che abbiamo fatto e in parte stiamo ancora facendo sia “smart working”. Per referenze incrociate, per sovrapposizioni e per confronti, che cosa sia lo smart working lo stiamo apprendendo un po’ sulla nostra pelle e un po’ dalla cultura che si sta formando intorno alla necessità. Prendiamo la recentissima definizione che ne dà il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali:
“Il lavoro agile (o smart working) è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro; una modalità che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, favorire la crescita della sua produttività”.

Non è forse il modo di lavorare a cui avremmo diritto tutti? Per fasi, cicli ed obiettivi, a vantaggio della produttività e dell’equilibrio vita lavoro? Chiamandolo smart, ci stiamo però dicendo che, per la maggioranza delle persone, la modalità di default resta quella di lavorare in modo non agile, con vincoli orari o spaziali e senza un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, in un modo che non le aiuta a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, non favorisce la crescita della loro produttività. Quanti di questi “non” sono ancora profondamente radicati nel nostro modo di lavorare: anche in quello cosiddetto smart, che in realtà si è solo spostato di location e appesantito di byte, alleggerendosi di chilometri e mantenendo la maggior parte delle vecchie cattive abitudini?

Ecco il rischio di prendere per buone alcune definizioni che ci illudono di essere entrati nella fase “smart”: ci sembra che il cambiamento sia tutto lì, sia stato fatto. Che la formula smart ci renda migliori (più felici, più produttivi), mentre forse sta eliminando proprio le possibilità di sosta, messa in discussione e ripensamento che rinnovano i sistemi, e ci sta facendo tornare alla dinamica della catena di montaggio. Facciamo di più, ma non meglio. Ci accomodiamo nell’area dello smart working, guardati con un po’ di invidia da chi purtroppo è dovuto restare nell’area dello stupid working, ma in realtà abbiamo cambiato solo i contenitori, perdendo probabilmente anche più di quel che abbiamo guadagnato.

Non esiste, una formula smart. E aggiungere l’aggettivo smart a un concetto non basta per traghettarlo dal vecchio al nuovo. Esiste piuttosto uno stato “beta” che probabilmente è destinato a diventare “permanente” – come lo ha definito il fondatore di Linkedin, Reid Hoffman – in cui possiamo imparare ad osservarci e ad imparare, scegliere che cosa tenere e che cosa buttare via, risponderci quando ci domandiamo perché lo facciamo. E continuare a domandarcelo, e continuare a risponderci, senza sorprenderci se le risposte che ci diamo continuano a cambiare – e senza mai stancarci di farci delle domande.

  • Rocco coronato |

    Effettivamente abbiamo vissuto in questi ultimi due/tre mesi l’illusione di essere passati ad una dimensione lavorativa diversa ma, soprattutto nella pubblica amministrazione, si è trattato nella quasi della generalità dei casi di un “effetto collaterale” dell’obbligo di distanziamento sociale.

  • Sarco |

    In generale sono contrario all’anglofonia nella lingua italiana. Questo ottimo articolo rafforza la mia convinzione e il Ministero dell’istruzione dovrebbe intervenire con i pubblicitari, media etc al fine di contenere il disastro linguistico che stiamo subendo da anni. Lo stesso lo dovreste scrivere per bond, spread, green, etc che vengono usati ovunque.

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