Aziende: donne nei cda delle quotate al 36,3%, ma solo 14 le ceo

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La legge Golfo-Mosca sulle quote rosa nei cda ha consentito di compiere un grande balzo avanti. Ma non basta. Ci vuole uno sforzo sistemico, di mentalità e a livello politico e sociale per colmare il gender gap ancora presente nelle aziende italiane. Si possono sintetizzare i risultati del primo Rapporto Cerved-Fondazione Marisa Bellisario 2020 sulle donne ai vertici delle imprese, realizzato in collaborazione con l’Inps, che analizza l’impatto sulle imprese italiane della legge in questione.

Presentato al Senato qualche giorno fa davanti a un folto pubblico, il rapporto mostra come nelle società quotate le donne nei cda siano salite al 36,3%, ma si contano, per fare un esempio delle note dolenti, solo 14 amministratrici delegate. Gli esiti del rapporto sono stati commentati anche dalla presidente Elisabetta Casellati: “Per raggiungere una vera parità di genere nel mondo del lavoro, prescrivere ‘quote rosa’ o ‘soglie minime’ di presenza femminile è stato senz’altro utile, ma non risolutivo. Occorre – ha detto – affiancarvi una strategia legislativa e di governo più ampia e coraggiosa, sostenuta da una visione di lungo periodo che tenga conto anche dei profondi cambiamenti in atto”.

Rallenta la crescita delle donne nei cda

Guardando il bicchiere mezzo pieno, certamente grazie alla legge si sono compiuti passi importanti con un incremento delle donne nei cda delle società quotate passato  da 170 nel 2008, il 5,9%, alle 811 di oggi, il 36,3%, mentre nei collegi sindacali si è passati dal 13,4% del 2012 al 41,6% del 2019, con 475 sindaci donne. Tuttavia, dopo il forte aumento seguito alla piena attuazione della legge sulle quote di genere, nel 2019 la crescita ha subito un rallentamento: si contano solo due unità in più rispetto al 2018.

I dati – ha commentato Andrea Mignanelli, amministratore delegato di Cerved – dimostrano che l’applicazione delle norme ha permesso un salto in avanti nella presenza di donne nei board delle quotate e delle controllate che altrimenti non ci sarebbe stato, ma purtroppo non ha ancora promosso cambiamenti profondi nel nostro sistema economico”. Sono poche infatti le società quotate andate oltre il minimo imposto dagli obblighi di legge e sono poche decine le donne che occupano le posizioni più alte: 14 gli amministratori delegati donna (6,3%) e 24 le presidenti (10,7%).

Nei collegi sindacali, il ruolo di presidente è ricoperto da 49 donne, pari al 22% di tutte le società quotate. Anche secondo Lella Golfo, presidente della Fondazione Marisa Bellisario,  “la legge che mi onoro di aver portato all’approvazione nel 2012 ha prodotto risultati straordinari, tanto che il Parlamento ha deciso di reiterarla alzando l’asticella al 40%” ma “è certamente il momento di andare oltre e avanti, perché le quote sono solo uno strumento, utile certamente e necessario sicuramente, per raggiungere l’obiettivo di una parità reale e sostanziale a tutti i livelli”.

Italia al 76esimo posto per parità di genere

D’altronde, in generale, l’Italia non è messa bene, in termini di gender gap, rispetto alle altre grandi democrazie occidentali. Secondo l’indice costruito dal World Economic Forum, il nostro Paese è al 76° posto per disparità di genere sui 149 censiti, agli ultimi posti tra gli Stati più avanzati. Rispetto al 2006 ha guadagnato una posizione grazie all’introduzione delle quote di genere nella composizione delle liste elettorali, ma negli altri ambiti ha evidenziato chiari peggioramenti: ad esempio, per quanto riguarda le opportunità economiche è scivolato al 117° posto, con performance particolarmente negative in termini di parità salariale. In Italia è occupato il 56,2% delle donne tra i 15 e 64 anni contro il 75,1% degli uomini, una percentuale che risulta tra le più basse all’interno dei 37 Paesi censiti da Eurostat. Peggio di noi fanno solo Macedonia e Turchia.

Aziende non quotate, la percentuale di donne nei cda cresce lentamente

Ma guardiamo alla situazione delle società non quotate che non sono obbligate a rispettare le quote, ma per le quali si sperava in un effetto trascinamento. Nella grande maggioranza delle imprese, dove non ci sono norme specifiche sulla parità di genere, la presenza femminile nei consigli d’amministrazione cresce lentamente e riflette il ricambio generazionale. La percentuale aumenta nelle società con amministratore unico (dal 10,8% al 12,7% tra 2012 e 2019) e in quelle che hanno un board collegiale (dal 14,4% al 17,9%), ma rimane ben al di sotto della soglia di un terzo.

Solo nelle imprese di maggiori dimensioni, che partivano da una presenza femminile significativamente più bassa e ora mostrano l’incremento più consistente, le norme sulle società quotate potrebbero aver prodotto effetti indiretti: tra 2008 e 2019, la quota femminile nei cda infatti passata dall’8,7% al 16,5% nelle società che fatturano più di 200 milioni di euro. Tuttavia, questo non si è tradotto in un maggior numero di donne che ricoprono il ruolo di ad: appena l’8,4%, contro una media del 16,6 per cento.

Farina (Poste): bene la legge, ma ora cambiare la mentalità e la cultura

I risultati del rapporto Cerved, in occasione della presentazione al Senato, sono stati analizzati anche dalla presidente di Poste Italiane, Maria Bianca Farina. La legge, a suo parere, “è stato elemento di rottura per il sistema ma non può essere sufficiente. E chiaro che aiuta cambiare il modo di pensare Oggi le donne studiano ancora poco le facoltà scientifiche e la maternità viene vista come un intoppo” . In poche parole “la storia il mondo del lavoro è a misura d’uomo”. Ora occorre dunque “cambiare la testa e la cultura delle persone”.

Sul tema è intervenuto anche un top manager, cioè l’ad di Tim, Luigi Gubitosi. Secondo lui “la distinzione non va fatta tra manager uomini o donne, ma tra manager capaci o no. Da anni – ha aggiunto – cerco di portare nelle aziende che guido, da ultima Tim, questa visione, consapevole che in generale di strada da fare ce n’e’ ancora tanta, in termini di cultura manageriale da modificare nel Paese“.  Secondo la presidente Casellati, infine , “creare pari opportunità significa creare le migliori condizioni perché il potenziale femminile possa esprimersi senza ostacoli o condizionamenti.   Vuol dire investire sulle famiglie e sulla loro stabilità; sulla scuola; sulla formazione delle nuove generazioni.   Significa predisporre strumenti normativi efficaci per trovare un punto di equilibrio sostenibile tra vita lavorativa e vita privata, così come per contrastare con fermezza ogni forma di discriminazione o di violenza basata sul genere”.