Lessico femminile, la tela di un pensiero nostro

petrignani

Suona così familiare il “Lessico femminile” di Sandra Petrignani che a leggerlo pare di tuffarsi dentro un glossario condiviso o un’opera collettiva. Alla ricerca dichiarata del “bandolo del nostro comune sentire femminile”, la scrittrice nata a Piacenza e ormai di casa nella campagna umbra si muove tra i suoi scaffali pescando tra romanzi e racconti usciti dalla penna di decine di autrici, italiane e straniere. Afferra uno dei fili rossi possibili. E tesse “la tela di un pensiero nostro”: la trama che lo caratterizza e l’ordito che lo ha tenuto nascosto, sommerso, silenziato.

Come in un viaggio non programmato, le tappe letterarie sono il frutto di una “scelta personalissima e asistematica”, materia prima che proviene dall’immaginario e dalla cultura di Petrignani. Il risultato è un atto di generosità, anch’esso letterario: l’offerta di un “noi” in cui ritrovarsi e orientarsi. Parole di donna che si aggiungono a parole di donne, metà canto metà tributo, tentativo di “responsabilità collettiva”. “Il corsivo è nostro”, annuncia nel prologo, parafrasando “Il corsivo è mio” di Nina Berberova.

Ed è veramente nostro il corsivo quando si parla di casa, il punto di partenza che Petrignani ha già indagato nel bel volume “La scrittrice abita qui” (Neri Pozza, 2002), tema femminile per eccellenza, crocevia per le donne impossibile da ignorare. Sfoglia “Gita al faro” di Virginia Woolf, le pagine della villa abbandonata dopo la morte della signora Ramsay, e si chiede: potrebbe uno scrittore dedicare “tanta maniacale attenzione alla descrizione degli odori, dei suoni, dei sapori, dei colori che s’annidano fra una carta da parati e un tappeto, un vetro rotto e la polvere penetrata nell’intarsio della cornice di un quadro?”. Cita le due Marguerite, Yourcenar e Duras, la prima inaffidabile e sprezzante (almeno per ciò che dice di se stessa) verso Petite Plaisance, il buen retiro dove visse 40 anni con Grace Frick, la seconda lucida nel descrivere “l’impresa pazzesca rappresentata da una casa”, il posto dove trattenere figli e uomini e “raccogliere il loro smarrimento”.

Gli uomini, l’alterità che ci ha inchiodate nel ruolo dell’Altro, perché “l’umanità che dà la linea al mondo è perlopiù di genere maschile”, sono termini di paragone e oggetti d’amori struggenti, germi di “lui-te”, quella che per Grace Paley è “la terribile malattia delle femmine” e che per Simone Weil trasforma in vampiri: “Amiamo qualcuno, cioè amiamo bere il suo sangue”. Relazioni pericolose, ossessioni, proiezioni fantasmagoriche: il tormento di Sylvia Plath con Ted Hughes, di Ingeborg Bachmann con Paul Celan, di Dacia Maraini con Alberto Moravia. Con loro, insieme, si tocca con mano lo schiacciamento della scrittrice – ogni scrittrice – nel confronto ravvicinato con il talento maschile.

Come biasimarla? Ricorda Petrignani che Milan Kundera in quattro raccolte è riuscito a non citare mai una sola autrice. Nabokov nei suoi due volumi di Lezioni di letteratura si è limitato a Jane Austen, e soltanto per l’insistenza del suo amico critico Edmund Wilson. Vale anche per i giorni nostri. Giuseppe Montesano, in Lettori selvaggi (2016), ne recupera in tutto una ventina: peccato che la sua sia un’opera-mondo di duemila pagine che attraversa la storia della letteratura dalla preistoria. Scrive Petrignani: “È stata una sonora lezione, ulteriore, di quanto poco ha contato, nel corso della storia, la voce femminile. E, purtroppo, di quanto ancora oggi faccia fatica a entrare nel canone”.

Fatica anche da lettrici, perché “ci siamo da sempre dovute misurare, forse perfino formare, con e su modelli femminili immaginati, sognati, temuti, fantasticati, osservati e interpretati dagli uomini, dai creatori di antichi grandi miti fino ai più realistici scrittori ottocenteschi e contemporanei”. Siamo state la ninfetta di Nabokov, Ofelia, Gertrude, Anna Karenina, Emma Bovary, condannate al dualismo: angeli o demoni. Come Eva o Pandora: eppure, domanda Petrignani, qual è la creatura più demoniaca? Chi mangia la mela e scoperchia il vaso o chi regala una mela che non si può mangiare e un vaso che non si può aprire?

Ma accanto a “lui per lei” c’è “lei per lei”, la sorellanza che rasenta l’innamoramento, Vita Sackville-West per Virginia Woolf o Hannah Arendt nello sguardo di Julia Kristeva. E poi ci sono le madri, nei libri delle scrittrici quasi sempre ritratte come “dolorose, adoranti, indegne”, e viste dai figli, ma più dalle figlie, come “presenze inquiete, fonte di rabbia e solitudine, bersagli d’odio spesso indistinguibile dall’amore. Per esserci, esserci state, non esserci, esserci troppo, essere morte”. C’è l’affanno della scrittura, delle verità da dire, della fortezza da presidiare, per dirla con Flannery O’ Connor.

Infine c’è il tempo, con l’asprezza della vecchiaia e la consapevolezza amara di Simone de Beauvoir: “La donna subisce fino alla fine la sua condizione di oggetto erotico. La castità non le è imposta da un destino fisiologico ma dalla condizione di creatura relativa”. Una condizione che ci fa stirpe, genìa abituata a cadere ogni tanto in quel pozzo descritto così bene da Natalia Ginzburg, a “lasciarsi prendere da una tremenda malinconia e affogarci dentro, e annaspare per tornare a galla”. Petrignani ci mostra come e quanto ci passiamo tutte, ci segnala chi ha trovato il coraggio e la libertà di raccontarlo. In sintesi: ci fa sentire meno sole.


Titolo: Lessico femminile
Autore: Sandra Petrignani
Editore: Laterza
Prezzo: 18 euro

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