C’è un corpus musicale immenso che è emerso negli ultimi trent’anni ad opera di un musicista, Francesco Lotoro, di Barletta, docente di pianoforte. Una produzione musicale vastissima che copre un arco temporale di venti anni – dal 1933 al 1953 – che abbraccia tutti i generi musicali fino ad allora in voga, dal jazz alla classica. Ottomila partiture (dodicimila audiovisivi e diari, tremila volumi di saggistica), alcune delle quali rinvenute su supporti impensabili, come la carta igienica utilizzata dal musicista che soffriva di dissenteria, oppure scritta con la carbonella. Perché scrivere musica è un’esigenza insopprimibile per un musicista, e forse lo diventa ancora di più quando si è prigionieri di un lager, nella totale privazione dei diritti umani e del fondamentale riconoscimento della dignità.
Il maestro Lotoro, Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, riconoscimento conferito dal presidente Sergio Mattarella, porta avanti quella che definisce la sua “missione” dal 1988, da quando si imbatté nella composizione di Gideon Klein, un pianista ceco deportato a Terezín nel 1941, trasferito ad Auschwitz nel 1944, e morto nelle miniere di carbone di Fürstengrube. Riportare in vita tutta quella musica, che viene definita “concentrazionaria”, ossia prodotta in cattività, è un’opera morale e filologica allo stesso tempo.
Significa riportare in vita le speranze, i sospiri, le paure e il terrore di queste persone deportate, imprigionate, che, grazie alla musica, potevano recuperare uno spiraglio di vita perduta. Significa restituire dignità ad una produzione musicale per troppo tempo sconosciuta e ignorata che merita di entrare a far parte della letteratura musicale a pieno titolo, che concorreva a rendere il dolore di quelle esistenze e la prospettiva della morte forse più sopportabile.
«Questo lavoro non si pone filtri – spiega Lotoro – lo studio parte dal 1933, dal primo campo di concentramento, ben prima dell’inizio della guerra, per finire nel 1953, venti anni dopo, con la morte di Stalin. L’obiettivo è raccogliere la produzione musicale di tutti i campi di prigionia e concentramento, non solo quelli nazisti, ma anche dei gulag sovietici, nei campi giapponesi e asiatici ad esempio. La cosa che sempre mi sorprende, ogni qual volta mi imbatto in un documento di genere, è la genialità e la normalità che convivono ed emergono in contesti del genere. Non è importante come questa ricerca sia cominciata, in un’epoca quando ancora non c’era Internet e tutto veniva condotto in un modo più “artigianale”, diciamo così, ma come questa ricerca andrà avanti, perché è una corsa contro il tempo. Ancor più tengo a sottolineare l’importanza dell’incontro con i sopravvissuti – aggiunge – che sono ancora straordinariamente lucidi, sono musicisti o testimoni di attività musicali nel campo, ricordano il 95% di ciò che è stato prodotto. Non è solo e non è tanto un manoscritto o uno spartito che mi devono consegnare, ma un ricordo della loro vita. Io ne sono testimone ed è per me un tesoro inestimabile».
Per alcuni sarà una scoperta, per altri forse solo una conferma: nei campi si suonava. E tanto. In orchestra o nelle orchestre (tanto per immaginare quanti detenuti e quanti di loro fossero musicisti). Perché si suonava? «Per allietare le SS o per coprire le concitate fasi di gasazione, di punizione o di selezione, perché gli altri non sentissero – aggiunge – così come suonavano i Rom, la cui musica era gradita alle SS».
Suonavano lasciando un segno per il futuro. Pensando ad un’Europa di pace. «Questa musica ci consegna un messaggio di pace e di speranza per il futuro – conclude – sono i musicisti di tutti i campi di concentramento ad aver visto ciò che non c’era, ovvero l’Europa unita, l’Europa dei popoli. Hanno suonato e creduto in un sogno che si è concretizzato oggi. Sono loro, attraverso il linguaggio universale della musica, ad averci consegnato questa realtà, che pur con i suoi limiti, va tutelata».
Ad aprile partirà il cantiere della Cittadella della Musica Concentrazionaria a Barletta, un gigantesco archivio che ospiterà il materiale fin qui raccolto. Progettata dall’architetto Nicolangelo Dibitonto, andrà a riqualificare l’area e le strutture di un’antica distilleria in disuso nella città di Barletta, in Puglia. Le strutture ospiteranno su una superficie di 9.000 metri quadrati, il Campus delle Scienze Musicali, la Biblioteca Multimediale, il Museo Thesaurus Memoriae, il Teatro Nuovi Cantieri, la Libreria Internazionale del Novecento e una piccola struttura ricettiva destinata a ricercatori e studenti.