Letizia Battaglia, in mostra fotografie di strada fino al 19 gennaio

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Letizia Battaglia, Il Tempio di Segesta, 1986 © Letizia Battaglia

Con la macchina fotografica c’è la possibilità di amare.”

Ricorro a questa frase per introdurre la grande mostra di Palazzo Reale a Milano (Letizia Battaglia. Storie di strada, fino al 19 gennaio 2020), occasione preziosa per rendersi conto che non c’è definizione più fuorviante per Letizia Battaglia di “fotografa di mafia”, visto che queste immagini rappresentano solo una parte della sua vastissima attività.

La rassegna, già presentata a marzo alla Casa dei Tre Oci di Venezia, è un progetto itinerante, frutto di un importante lavoro di scavo nel ricchissimo archivio della fotografa: sono esposte alcune delle immagini simbolo ma, per la maggior parte, si tratta di scatti inediti, scelti dalla curatrice Francesca Alfano Miglietti prevalentemente tra quelli “che rivelano il contesto sociale e politico”. Anche per questo motivo è consigliabile seguire il percorso con le audio guide: poter ascoltare la voce della protagonista ci permette infatti di immergerci nei luoghi e nelle situazioni e di apprezzare la calda e passionale carica umana di una donna che ha intensamente vissuto.

“Nel 1971, Milano mi ha accolta e dato le opportunità per decidere della mia vita. Avevo 36 anni e qui, non a Palermo, ho cominciato ad essere una fotografa“. Abbandonata la sua Palermo, Letizia approda infatti nella metropoli lombarda e si dedica al giornalismo, collaborando con testate prestigiose come “Il Corriere della Sera” e “il Giorno”.

Spesso, quando portava i suoi articoli in redazione, si sentiva chiedere: “e le foto?”. È così che si ritrova con in mano una macchina fotografica e inizia la sua avventura, senza preparazione tecnica alle spalle, mossa da curiosità, bisogno e, soprattutto, da quella trascinante energia che da sempre la contraddistingue.

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Letizia Battaglia, Pier Paolo Pasolini al Circolo Turati, durante il dibattito ” Libertà d’espressione tra repressione e pornografia”, dedicato alle censura e alla vicende processuali del film “I Racconti di Canterbury” 1972, Milano © Letizia Battaglia

L’esposizione si apre con un documento eccezionale della sua fase pionieristica: siamo nel 1972 al circolo Turati, dove si tiene un dibattito con l’autore sui Racconti di Canterbury di Pasolini, film colpito dalla censura con l’accusa di pornografia. La Battaglia si concentra sul regista, costretto alla difensiva anche dal fuoco amico della sinistra e del partito comunista, ritraendolo in un’accurata serie di scatti verticali: elegante, camicia bianca e abito nero, la sigaretta tra le dita, ne raffigura la mimica e i gesti con cui replica ai suoi interlocutori. Ma con una serie di foto orizzontali, ad altezza di sguardo, la Battaglia si sposta dalla cronaca su un piano diverso: Pasolini si staglia ora sul fondo nero che sembra avvolgerlo, è fisicamente presente, ma il suo sguardo si allontana dalla sala, perdendosi in una meditazione interiore che lo trasfigura come un eroe, coraggioso e solitario. È un monumento a un mito quello che la giovane apprendista fotografa eleva allo scrittore, regista e intellettuale, in quegli anni egualmente amato ed esecrato.

Un paio di anni dopo, nel 1974, Letizia ritorna nella sua Palermo grazie all’offerta del quotidiano comunista “L’Ora” di dirigere il team fotografico, incarico che terrà per un ventennio (fino al 1991). Sono gli anni della seconda guerra di mafia, una mattanza scatenata dai Corleonesi di Riina che insanguina Palermo e che culminerà con l’assassinio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa (3 settembre 1982): nella seconda, ampia sala della mostra, incontriamo le celebri foto di mafia, vediamo i morti ammazzati, il sangue sul selciato, i parenti in lacrime. Letizia è impegnata a correre su e giù per la città documentando la triste contabilità della morte, costretta spesso a sbraitare con le forze dell’ordine perché le fosse permesso di avvicinarsi alla scena del crimine, come era consentito ai suoi colleghi uomini: non era certo facile essere donna fotoreporter nella Sicilia di quegli anni.

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Letizia Battaglia, Il magistrato Roberto Scarpinato in aula presso il Tribunale di Palermo durante un’udienza come Pubblico Ministero al processo contro l’ex- primo ministro Giulio Andreotti, seduto sullo sfondo. L’ on. Giulio Andreotti sette volte Primo Ministro fu, poi, assolto per prescrizione di reato © Letizia Battaglia

Sono foto concitate, scattate talvolta in poche frazioni di secondo facendosi largo tra la folla, la confusione, le urla, come le eccezionali immagini dell’omicidio di Piersanti Mattarella, presidente della Regione e fratello dell’attuale Presidente della Repubblica, con la moglie che esce in lacrime dall’auto appena colpita dai killer e alcuni uomini che trasportano il corpo esanime. Ma attraverso le sue immagini Letizia Battaglia racconta non solo la mafia e la sua efferatezza, ma anche la città di Palermo e la sua gente, la lotta silenziosa e fiera di chi si sente abbandonato dallo Stato al proprio destino e non vuole rassegnarvisi: la madre di Peppino Impastato, il giovane giornalista proveniente da una famiglia mafiosa cui si ribella, coraggiosamente lottando contro quel sistema fino al sacrificio; i magistrati come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Roberto Scarpinato – raffigurato in uno splendido ritratto durante un’udienza nel processo a Giulio Andreotti; i mille volti della gente comune, come l’anziana donna che si inginocchia, istintivamente facendosi il segno della croce, alla notizia della morte di Giovanni Falcone. È una concezione militante della fotografia, che si pone l’ambizioso compito di “ripulire attraverso le immagini la città”.

Dopo questa sala, la mostra ci presenta l’altro lato della fotografia della Battaglia, una fotografia sociale, capace di guardare con amore lo spettacolo della vita che scorre, perché “si può essere grandissimi fotografi raccontando le piccole cose”.

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Letizia Battaglia, Vicino la Chiesa di Santa Chiara. Il gioco dei killer, 1982, Palermo © Letizia Battaglia

Letizia Battaglia, madre single di tre figlie nella Sicilia degli anni ’70 e ’80, ha anche molto viaggiato: New York, la Turchia, Berlino, l’Africa; sempre osservando la gente comune, donne, anziani e bambini, le feste, la vita pulsante e quotidiana, che costituisce la gran parte del libro delle nostre vite. Letizia ha una capacità unica di usare la fotografia per toccare e far vibrare all’unisono con lei le persone che fotografa, lasciando passare attraverso la superficie delle sue immagini, frontali, dirette, brucianti di vita, i sentimenti e le emozioni che ci rendono parte della stessa famiglia umana sotto tutti i cieli.

Una sala della mostra è dedicata ai baci: guardando queste foto di contagiosa libertà sentiamo sotto pelle quelli scambiati nelle nostre vite, perché “dentro una fotografia c’è la vita che hai vissuto”.

Un’altra è dedicata ai nudi femminili: sono sue amiche, che accettano di mettersi a nudo di fronte a lei, perché sanno di essere capite e non giudicate dal suo sguardo fraterno e complice.

Letizia Battaglia scatta sempre a altezza di uomo, vuole un contatto fisico con le persone che riprende, usa sovente il grandangolo per dilatare la scena e buttare la spettatore tra le braccia dei protagonisti delle sue immagini: la sua è una fotografia non solo di grande potenza, ma di eccezionale sperimentalismo e libertà di linguaggio, che si distacca dalla tradizione oggettiva e documentaria del reportage. La Battaglia non avrebbe potuto raccontare le stragi o le guerre di posti lontani e sconosciuti, ha narrato quelle della sua amata e odiata città: “La Palermo che amo è quella che puzza. Amo la sua potente decadenza, che vuole rialzarsi.” Soprattutto ha raccontato sé stessa: fuggita da una storia familiare difficile, nella quale ha sperimentato l’abbraccio soffocante di una società maschilista e chiusa che l’aveva portata a 36 anni quasi alla morte, costringendola a intraprendere un percorso di autoanalisi, ha scelto di lasciare famiglia, marito e la Sicilia per cercare una nuova vita a Milano, da cui ripartire: “Ho lottato tutta la vita per riappropriarmi di me e ci sono arrivata quando ho iniziato a fotografare.

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Letizia Battaglia, La bambina con il pallone, Quartiere La Cala, 1980, Palermo © Letizia Battaglia

Questa storia intima è particolarmente evidente nella splendida sala dedicata alle bambine, perché “quando incontro la ragazzina imbronciata, sulla soglia dell’adolescenza, magra, con le occhiaie, i capelli lisci, sono io.” È difficile tradurre in parole le emozioni che queste immagini sanno comunicare: nascono da una grande empatia e un non comune rispetto, perché nelle sue foto non ci sono soggetti da riprendere, ma persone da riconoscere.

La mostra si chiude, dopo una sala che mostra i legami di Letizia Battaglia con grandi fotografi (il suo amato Koudelka), intellettuali e uomini politici, con un video in cui l’anziana e indomita fotografa – ma lei dice di sé: “Io sono una persona, non sono una fotografa. Sono una persona che fotografa.” – si racconta, rivelandoci il suo ultimo progetto. Ancora una volta per fare i conti con sé stessa.