Quando ti tolgono la potestà in nome dell’alienazione genitoriale

cap-child-daytime-1377069

Lorena, il nome è di fantasia, parla al telefono concitata dopo l’ennesimo atto di un’odissea che fuori e dentro le aule di giustizia va avanti da anni a colpi di denunce e perizie psichiatriche, ricorsi e udienze. Il Tribunale dei minori con un decreto provvisorio ha sospeso la potestà genitoriale e affidato suo figlio di 9 anni a un tutore. “Vogliono togliermelo, richiuderlo in una casa famiglia, ‘resettarlo‘ come dicono loro e poi affidarlo al padre: io non potrò né vederlo né sentirlo per 6 mesi”, dice. E su Facebook si abbandona a una riflessione che arriva come un pugno nello stomaco: “Non dite alle donne di denunciare la violenza, fatelo per noi e per i nostri figli se po dovete lasciaci soli a combattere contro un mostro a sette teste mentre noi abbiamo in mano una cerbottana”.

La vicenda di Lorena nasce da lontano: AlleyOop l’ha raccontata qualche mese fa, all’indomani del deposito di una consulenza psicologica a carico della donna che la dichiarava “alienante”. Il rifiuto di suo figlio di incontrare l’altro genitore sarebbe frutto di una manipolazione della donna sul bambino. Il rimedio? Separare madre e figlio, prelevare il bambino, collocarlo in casa famiglia, interrompere ogni rapporto per sei mesi, anche solo telefonico, e poi affidarlo al padre in regime super-esclusivo. Ma facciamo un passo indietro. Le misure di contrasto all’alienazione genitoriale hanno incassato l’investitura politica: inserite nel contratto di Governo, sono state recepite dal ddl Pillon che ha codificato il rifiuto dei bambini a incontrare uno dei genitori come vera e propria patologia psichiatrica. Con tanto di trattamento psicologico sui minori da trasferire in strutture protette: le case famiglia oggi al centro delle cronache dopo il caso di Reggio Emilia che tanto sta facendo scalpore.

L’affaire emiliano, per gli esperti, non è che la punta di un iceberg. Perché scoperchia un ricorso agli affidamenti che troppo spesso non ha nulla a che vedere con i casi di maltrattamento e violenza. In un’inchiesta del 2013 il Sole24Ore scoprì numeri fuori controllo facendo due conti sul business che girava intorno alla sottrazione dei bambini dalle proprie famiglie di origine. E non è un caso isolato nemmeno quello di Lorena: l’alienazione genitoriale, che non ha ottenuto un’investitura scientifica, è largamente utilizzata nei tribunali. In caso di conflitto sull’affidamento dei figli, i giudici ricorrono sempre più spesso a consulenze tecniche (a pagamento) di psicologi e psichiatri. E se gli esperti sono sostenitori di quella teoria, l’esito di fronte al rifiuto di un bambino, anche in caso di violenza domestica, non può che essere uno: sottrazione del minore alla madre (ma talvolta si tratta del padre), collocamento in casa famiglia, trattamento psicologico per “ripristinare” una bigenitorialità che qualcuno invoca come sacro diritto del bambino. Anche quando è imposta, forzata, ottenuta con le maniere forti.

“Mio figlio è un bambino sereno, educato, perfettamente inserito nel contesto scolastico – racconta Lorena – ed è un bambino che in tribunale ha implorato il giudice di lasciarlo vivere a casa sua, con me e i suoi nonni”. La teoria dell’alienazione genitoriale però fa in modo che le parole di un minore diventino inattendibili: una sorta di incapacità di intendere e di volere. Basta una perizia psicologica fondata su una teoria che in questi anni non ha trovato copertura scientifica per aprire la strada al collocamento in una casa famiglia. Non contano le convenzioni internazionali a tutela dell’infanzia, non conta la Convenzione di Istanbul sulla violenza contro le donne. E nemmeno le relazioni delle alte rappresentanti Onu che hanno richiamato l’Italia sull’uso distorto dell’alienazione nei tribunali. Non conta infine il diritto del minore a essere ascoltato in tutti i procedimenti che lo riguardano. Ascoltato e rispettato.

Ma torniamo a Lorena. La sua vicenda riprenderà nelle aule di giustizia dopo la pausa estiva quando i giudici decideranno se confermare o revocare il decreto di sospensione della potestà. Il provvedimento è provvisorio e non può essere impugnato. “Tutto questo perché non ho mai contravvenuto alle indicazioni di assistenti sociali e giudici – si sfoga Lorena – ho fatto tutto quello che in 7 anni di incubo mi hanno detto di fare: mio figlio andava portato agli incontri protetti e io l’ho fatto senza mai tirarmi indietro, nemmeno quando lui stava male, piangeva, vomitava”. La lunga estate di Lorena ha l’odore della paura: il terrore che da un giorno all’altro qualcuno bussi alla porta con in mano il decreto di allontanamento di suo figlio. “Ma io continuo a lottare – dice esausta -, non mi fermerò né ora né mai”. Nel frattempo ha chiesto aiuto in tutte le sedi, a tutti i livelli. Ha lanciato petizioni, ha ottenuto il sostegno di associazioni a difesa delle donne, ha organizzato sit-in sotto il Tribunale dei minori. E ha scritto, Lorena: ha inviato lettere al ministro della Giustizia Bonafede, al presidente della Regione Lazio Zingaretti, alla sindaca di Roma Raggi. Sta ancora aspettando una risposta.