Dove sono le donne nei consigli regionali?

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Otto consigliere su sessanta. A quasi un mese dal voto del 24 febbraio scorso sono arrivati i risultati definitivi delle elezioni regionali in Sardegna.

Le prime con le liste paritarie (numero uguale di candidati e candidate) e la doppia preferenza di genere, norma introdotta l’anno scorso nella legge statutaria. Un provvedimento che nell’Isola ha avuto un iter tortuoso. È stato respinto più volte con il voto segreto e poi infine approvato grazie alle lotte incessanti e alle rivendicazioni continue delle donne sarde. La novità prevede per l’elettorato la possibilità di esprimere due preferenze da attribuire a candidati di genere diverso purché appartenenti alla stessa lista. È stata anche introdotta la parità nella comunicazione politica: la presenza paritaria di candidati e candidate nelle tribune politiche e negli spazi offerti dalle emittenti radiotelevisive pubbliche e private.

Il bilancio di queste ultime consultazioni in apparenza può sembrare positivo. Il numero di consigliere rimane infatti basso, ma è raddoppiato rispetto alla scorsa legislatura. Da quattro le consigliere ora saranno otto. In realtà basta esaminare le modalità con cui le elette hanno partecipato alla campagna elettorale per capire che la doppia preferenza di genere in Sardegna non ha dato gli esiti sperati. Sette consigliere su otto si sono presentate agli elettori e alle elettrici senza “l’apparentamento”, ossia quello che è stato definito “ticket”, l’abbinata a un uomo aspirante consigliere.

Alessandra Zedda, Forza Italia, una delle poche donne capolista, alla sua terza legislatura, la più votata tra le elette, ha corso da sola senza indicare il nome di un candidato consigliere con cui poter essere votata. Stessa scelta per Desirè Manca, Carla Cuccu ed Elena Fancello, Movimento 5 Stelle, Maria Laura Orrù, lista Sardegna in Comune, Annalisa Mele e Sara Canu, Lega, tutte alla prima esperienza in Consiglio.
L’unica che ha indicato il candidato a cui era abbinata è stata Laura Caddeo. Dirigente scolastica, lista civica Insieme con Massimo Zedda, ha scelto Jacopo Marongiu, giovane neolaureato in Chimica. La candidata forte era senza dubbio lei, una lunga esperienza nel mondo della scuola. Lui non è entrato in Consiglio.

«Ci siamo battute in tutti i modi affinché, grazie alla doppia preferenza di genere, venissero elette molte donne in Consiglio regionale in misura adeguata al loro valore, al ruolo e alla presenza nella società – ha dichiarato Carmina Conte, presidente dell’associazione Coordinamento 3 che si è battuta con altre associazioni per l’introduzione della doppia preferenza di genere – Ma, come ripetutamente denunciato, durante il dibattito preelettolare e durante tutta la campagna elettorale, ciò non è avvenuto per la mancanza di un’informazione adeguata e per l’uso “improprio” e strumentale di questa importante norma di democrazia».

In effetti c’è stata poca chiarezza. C’è chi ha confuso la doppia preferenza di genere con il meccanismo delle quote che impone un numero di donne, mentre la doppia preferenza è una misura promozionale, ma non è coercitiva. Ha una logica diversa che però può rivelarsi inefficace senza la reale volontà dei partiti di mandare avanti le donne.

La doppia preferenza di genere serve ad agevolare l’ingresso delle donne nei luoghi decisionali e nelle assemblee rappresentative. È stata invece sfruttata in questa campagna elettorale in terra sarda in modo furbo da alcuni aspiranti consiglieri che hanno pensato bene di utilizzare il ticket per abbinarsi a più candidate con esiti discutibili. Il risultato è stato una sorta di effetto harem che ha tradito lo spirito della legge. Non avvantaggiava le donne, ma le trasformava in portatrici di voti a favore di un unico candidato uomo. Ecco perché alcune hanno rivendicato con fierezza la scelta di non avere nessun “apparentamento”, ma di correre libere e autonome.

Il problema della scarsa presenza delle donne in Consiglio Regionale non è stato quindi risolto. Una legge può senza dubbio aiutare, ma non può da sola sanare un deficit di rappresentanza che affligge l’assemblea sarda da 70 anni. In 16 legislature su un totale di 1174 consiglieri, le elette sono state 69, il 5,87%. La parità di genere non può essere senz’altro imposta dall’alto, ma ha bisogno di un cambio mentalità che deve partire dalle strutture ancora maschiliste e patriarcali che regolano la politica.

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Non è un problema che riguarda solo la Sardegna. In Italia, fino al 2011, le donne elette nei consigli regionali sono state una su 10. Dopo il 2012, anno della legge 215 (Disposizioni per promuovere il riequilibrio delle rappresentanze di genere nei consigli e nelle giunte degli enti locali e nei consigli regionali) la percentuale è aumentata dall’11,38% al 17,60%. Secondo uno studio elaborato dall’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Irrps) in tutte le regioni in cui è stato introdotto un meccanismo per favorire la parità di genere al 2016, la percentuale di donne consigliere è aumentata. Gli uomini continuano però a rappresentare in media oltre l’80% degli eletti.

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È stato calcolato anche l’indice di successo che mette a confronto la quota di donne candidate con quelle elette. Quali probabilità hanno le donne di entrare in consiglio? Il dato è intorno al 0,47, al sud scende fino a 0,31. Il valore di riferimento dovrebbe essere 1 (perfetta corrispondenza tra candidate e elette).

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Ci sono regioni come la Basilicata che aveva 0 consigliere, ora, con le ultime regionali (urne aperte a fine marzo) ha una donna eletta, in Puglia e Molise, invece, sono 5, l’Abruzzo ne ha 6, come sottolineato in un articolo di Andrea Gagliardi sul Sole 24 Ore.

La Calabria ha una sola consigliera e proprio in questa regione le donne stanno cercando di ottenere la doppia preferenza di genere. Si voterà la proposta di legge n. 31/10 il 15 aprile. Nel frattempo Lella Golfo presidente della Fondazione Bellisario che si occupa di parità di genere ha lanciato una petizione per l’approvazione della norma in Calabria «Una questione – dice Golfo nell’appello – che si trascina dal 2015 privando la Regione di uno strumento di civiltà e di sviluppo. Avere un maggior numero di donne al governo della Regione non è una questione di parità o di genere ma di semplice democrazia e crescita. L’approvazione della doppia preferenza è un passo obbligato e non più rinviabile».

Tornando alla Sardegna la doppia preferenza di genere ha invece decisamente funzionato nelle ultime elezioni amministrative. Uno studio dell’associazione Coordinamento 3 realizzato da Luisa Marilotti e Maria Francesca Mandis ha stabilito che nei comuni della Sardegna con una popolazione superiore ai 5000 mila abitanti la percentuale delle elette nei consigli comunali è passata dal 20%(media nazionale) al 42,58%.

La strada è quindi ancora molto lunga. Il #tuttimaschi, hashtag che ha lanciato in rete la scrittrice attivista femminista Giulia Blasi per indicare dibattiti pubblici e quegli eventi che affrontano temi cruciali senza alcuno spazio per la voce delle donne, vale anche in politica. In Sardegna i candidati governatore erano sette ed erano #tuttimaschi. A livello nazionale l’Italia ha solo una regione amministrata da una donna, l’Umbria con Catiuscia Marini.

In passato, dal 2003 al 2015, le donne presidente sono state 5: Maria Rita Lorenzetti e Catiuscia Marini (Umbria), Mercedes Bresso (Piemonte), Renata Polverini (Lazio), Deborah Serracchiani (Friuli-Venezia Giulia). Le donne con incarico da assessore nelle giunte regionali sono 55, il 32,54% del totale (dati 2017). È la segregazione verticale diffusa. Il soffitto acuminato della piramide. I vertici ancora scarsamente abitati.
Aumentare il numero di donne in posizioni di potere aumenta la diversità dei punti di vista politici.

C’è però un altro problema. L’ha sollevato un articolo del World Economic Forum. Allargando gli orizzonti, ma parlando a ogni latitudine. Le donne hanno uno stile di leadership differente? Due malintesi continuano a inficiare il discorso sulla leadership politica delle donne e sono l’idea che le “questioni femminili” in qualche modo divergano da altre questioni politiche. Cosa costituisca la “questione femminile” rimane oggetto di dibattito. Solitamente sono le problematiche che comprendono l’uguaglianza salariale, i congedi parentali, i diritti riproduttivi, educazione delle ragazze, la violenza contro le donne, partecipazione politica.

«Anche le questioni sulla sicurezza nazionale, riforme fiscali, politiche commerciali ed economiche, normative tecnologiche, politiche energetiche, riforma della giustizia penale riguardano le donne di tutto il mondo direttamente e in modo significativo» sostiene il World Economic Forum che lancia un invito a riformulare la narrativa sulle “questioni femminili”, sono politiche economiche e sociali che riguardano tutti. Possono alzare gli standard della qualità istituzionale in termini di sicurezza nazionale e forte crescita economica.

La risposta sulla leadership delle donne prova a darla anche il New York Times questa settimana parlando della premier della Nuova Zelanda Jacinda Ardern. «Il mondo della politica dovrebbe imparare da lei. Quasi immediatamente dopo l’attentato che ha colpito il Paese venerdì scorso, Ardern ha ascoltato i suoi elettori e ha dichiarato che entro pochi giorni il suo governo avrebbe introdotto nuovi controlli sulle armi.
Giovedì ha annunciato il divieto per tutte le armi semiautomatiche e automatiche di tipo militare “Riguarda tutti noi”, ha detto, “è nell’interesse nazionale e riguarda la sicurezza”».

Qui si parla di responsabilità, di decisioni forti, di consapevolezza. È importante quindi che le donne non siano escluse dalla leadership. Contribuiscono a costruire una nuova autorità. Inclusiva, aperta a molteplici istanze.