È il primo avvocato di origini nigeriane ad essere eletto nel Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli. Hilarry Sedu, 33 anni, è arrivato piccolissimo nel nostro paese. Prima di scegliere di diventare avvocato, aveva davanti a sé una promettente carriera da calciatore a livello professionale, ma svariati infortuni lo hanno costretto a rinunciare. Non si è arreso, anzi. Ha scelto il diritto – nella sua accezione più nobile – e porta avanti la sua battaglia per la tutela dei diritti umani e dei migranti.
Usa le parole con cautela e pacatezza. Sa bene che ognuna ha un suo valore che non intende sciupare o buttare lì a caso. La sua elezione – con 1205 voti – rappresenta un segno, un passo in avanti in questi tempi non facili. Nessuno dovrebbe stupirsi di fronte al colore della pelle o alle origini di un professionista, di un lavoratore, eppure viviamo un’epoca in cui ciò suscita ancora clamore. Subito dopo le elezioni, il primo pensiero di Hilarry è andato ad una frase usata come slogan dalle Black Universities, ai temi dell’America segregazionista, che ha riportato sul suo profilo Facebook, “Lift as you climb”, ovvero “Solleva, mentre sali”, cioè solleva anche gli altri, portali avanti con te, un motto che sintetizza e che rappresenta la sua filosofia e la sua mission. Il secondo pensiero, invece, è stato per Napoli, la sua città, simbolo secolare di incontro e di accoglienza.
Perché ha deciso di candidarsi al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli?
«La mia candidatura nasce da numerose richieste di colleghi che si occupano dei diritti degli immigrati perché mancava una rappresentanza effettiva nell’ordine forense. Ho accettato la sfida anche alla luce di un successo dell’anno precedente quando fui eletto con una buona percentuale di voti nel comitato pari opportunità. Sulla scia di questo risultato sono stato candidato al consiglio dell’Ordine Forense di Napoli e sono stato eletto».
Quando ha deciso di fare l’avvocato?
«Ho sempre avuto una grande passione per il diritto perché i miei genitori sono immigrati di prima generazione e ho vissuto sulla mia pelle che cosa significasse andare in giro per studi legali a chiedere pareri per sapere come regolarizzarsi sul territorio nazionale. Ricordo bene come, pur rivolgendosi a studi legali di spicco, questi erano molto lacunosi nel settore della normativa sull’immigrazione e dei diritti umani. Il mio desiderio era quello, in un certo senso, di ripristinare i diritti dei miei genitori. Per questo ho studiato Giurisprudenza e ho deciso di approfondire questo ramo del diritto».
In Italia, in questo momento, ce n’è particolarmente bisogno?
«La tutela dei diritti umani non è soltanto una questione di attualità, ma ha una grandissima rilevanza giuridica. Non parliamo più di fenomeni sporadici, di un evento o di un’eventualità. La presenza degli stranieri sul territorio dello Stato è un fatto cristallizzato e devono essere tutelati secondo le norme del diritto italiano, e come prescrive la nostra Costituzione, senza operare discriminazioni di natura legislativa e amministrativa in merito al godimento delle libertà civili. In particolare, l’attenzione è rivolta alle questioni relative alle richieste dei rinnovi dei titoli di soggiorno e per la richiesta di cittadinanza italiana per coloro che hanno maturato i requisiti per farvi accesso, oltre, purtroppo, a fattori discriminatori».
Ottenere la cittadinanza adesso è più difficile?
«Oggi è diventato più difficile, ma in Italia era già difficile prima. Adesso le maglie si sono ristrette ulteriormente alla luce dell’orientamento politico. Ora bisogna capire laddove il diritto ad avere la cittadinanza italiana è un diritto soggettivo o verte meramente su interessi legittimi, per la discrezionalità della Pubblica Amministrazione di concedere questo status».
A questo proposito, lei ha proposto lo Ius Culturae. Che cos’è?
«È un’idea che ho portato in Senato nel 2014 durante un’audizione, quando era al centro del dibattito il tema dello Ius Soli. La normativa in tema di cittadinanza non prevede lo Ius Soli (Diritto di Suolo, ndr), bensì lo Ius Sanguinis, il diritto alla cittadinanza per filiazione. Per tutti quei ragazzi che sono nati in Italia o vi sono giunti prima del quattordicesimo anno di età e soffrono questa discriminazione, pur essendo loro italiani di fatto, si potrebbe applicare lo Ius Culturae, una linea mediana tra l’auspicato Ius Soli e il vigente Ius Sanguinis. Potrebbero chiedere la cittadinanza al compimento del quattordicesimo anno di età, anziché al diciottesimo, coloro che sono nati qui oppure coloro che, pur non essendo nati qui, possono esibire due cicli scolastici consecutivi. Lo Ius Culturae è la valorizzazione di tutti i figli dei cittadini stranieri nati in Italia, o che vi sono arrivati prima dei quattordici anni, che parlano italiano, conoscono la cultura italiana. È una disparità che va sanata quanto prima. C’è un errore che noi tutti facciamo ed è quello di ritenere qualsiasi persona di origine diversa come un soggetto “da integrare”. Occorre dunque fare chiarezza. Le persone da integrare sono coloro che vengono in Italia dopo il quattordicesimo anno di età, a differenza di chi è nato in Italia o è arrivato prima del compimento del quattordicesimo anno – età a partire dalla quale un soggetto diventa imputabile per il nostro ordinamento giuridico – che consideriamo, invece, soggetti da includere».
Ha mai subito atteggiamenti discriminatori?
«Di base non sono mai stato discriminato da nessuno, l’Italia non è una nazione razzista, quanto piuttosto classista. Se parli italiano, segui abitudini e costumi, sei impregnato della cultura italiana, nessuno ti vede come diverso. Le discriminazioni si verificano laddove iniziano a ergersi barriere, come quella linguistica, quando si fa fatica ad interagire e nella mente di qualcuno si generano mostri, come se il diverso fosse un male da combattere o che costituisce una minaccia. Sebbene la mia sia un’esperienza positiva, non si può certamente negare che esista una deriva razzista e lo dicono i rapporti dei servizi segreti italiani che confermano che sono aumentati i reati a sfondo razziale».
Quali iniziative ha intenzione di avviare e di mettere in campo ora che è nel Consiglio dell’Ordine?
«Ci stiamo battendo qui a Napoli e nelle altre grandi aree metropolitane come Milano, Roma e Palermo per una mia iniziativa per risolvere una questione di grande importanza per la professione forense. Le questure di queste grandi città negano, infatti, l’accesso agli avvocati insieme ai loro assistiti, negano la rappresentanza effettiva presso l’ufficio della Pubblica Amministrazione. Ad esempio, se volessi andare il giorno della data di convocazione per il rinnovo del permesso di soggiorno di un mio assistito o per una prima presentazione della richiesta e presentarmi insieme a lui, io, in qualità di avvocato, non posso entrare nell’ufficio presso lo sportello competente. Ciò comporta che l’assistito stia da solo e non ci sia nessuno al suo fianco, sia se chi si interfaccia con il richiedente avesse delle esigenze particolari, sia nel caso in cui avvenissero delle irregolarità. Nessuno può prendere le difese del cittadino nell’immediatezza. È una condotta gravissima, antigiuridica e antidemocratica, oltre che realizzata in lesione del mandato di rappresentanza. Per questo, sto coordinando un’azione con altri Ordini d’Italia per rimuovere questa barriera. L’Ordine di Napoli, nella persona del Presidente, dopo la mia relazione, ha provveduto a inoltrare una missiva al Questore di Napoli che tuttora non ha ancora replicato. Scongiuriamo qualsiasi azione giudiziaria, ad ogni modo, nella speranza di porvi rimedio in maniera bonaria».