Tempesta emotiva che “giustifica” il femminicidio. Il ritorno del delitto d’onore. Gelosia come aggravante o come attenuante. Prese di posizione agli estremi: giudici incapaci. No, lettura errata delle motivazioni. Bianco o nero. Il dibattito di questi giorni su alcune sentenze in processi per femminicidio si è guadagnato titoli di primo piano sui giornali, prese di posizione di personaggi di spicco, della politica e della cultura, fino alle parole di ieri del presidente del Consiglio Giuseppe Conte: “Una tempesta emotiva non è una giustificazione per un femminicidio”.
Partiamo dai fatti:una sentenza della Corte d’Appello di Bologna, a inizio marzo, riconoscendo le attenuanti generiche ha ridotto da 30 a 16 anni di reclusione la pena per un uomo che ha strangolato la donna che aveva iniziato con lui una relazione da un mese. Tra queste attenuanti generiche, la ormai famosa “tempesta emotiva“. Un altro caso, qualche giorno dopo, a Genova. Anche in questo caso una riduzione della pena per un uomo che ha ucciso a coltellate sua moglie, per le attenuanti generiche riconosciute. Tra le parole che colpiscono nelle motivazioni, “il misto di rabbia e di disperazione, profonda delusione e risentimento” dell’uomo, e il suo stato d’animo “molto intenso, non pretestuoso, né umanamente del tutto incomprensibile“
Qual è il problema di queste sentenze? Lo abbiamo chiesto a chi, con queste sentenze, ha a che fare ogni giorno, in aula. Elena Biaggioni è avvocata, fa parte della rete di avvocate dei centri anti violenza D.i.Re, segue le donne del centro anti violenza di Trento. “Intanto va detto che è un bene che si parli di queste sentenze – afferma – perché serve conoscenza, sensibilizzazione. Però stiamo perdendo di vista il punto, che non sono i 16 o i 30 anni di pena, non serve la ‘pena esemplare’ o i linciaggi di piazza“.
Prendiamo il caso della sentenza di Bologna: “Leggendo le motivazioni – sottolinea l’avvocata Biaggioni – qui capiamo che la gelosia è stata considerata un’aggravante. Una donna è stata strangolata a mani nude, si conoscevano da un mese e lei lo voleva abbandonare. Nel momento della valutazione delle attenuanti generiche, però, si cita anche la ormai famosa “tempesta emotiva” dovuta a una situazione difficile dell’uomo, alla sua vita grama e al disagio. La domanda che dobbiamo porci è questa: come mai in altre tipologie di reato la vita grama non conta? Perché nella violenza contro le donne conta sempre? Come mai se uno è povero, proveniente da un contesto culturale arretrato, disagiato, e fa una rapina uccidendo magari per un Rolex è molto più raro che in aula vengano concesse le stesse attenuanti?“.
Forse perché delitti così efferati, che coinvolgono le relazioni, sono inaccettabili, inspiegabili? “Certo – risponde l’avvocata – a leggere di delitti come questo così ci viene da dire che non è ‘normale’. Purtroppo, però, i dati ci mostrano che è normale“. In Italia, lo ricordiamo, una donna ogni tre giorni muore per femminicidio. Il punto, secondo l’avvocata, è capire quanto gli stereotipi culturali giochino un ruolo nell’impianto di queste sentenze: “le decisioni giudiziarie spesso, troppo spesso, sono intrise di stereotipi e le valutazioni, anche quelle delle perizie, puntano troppo di frequente su argomenti che giustificano e deresponsabilizzano. E’ questo che va cambiato: il processo è sacrosanto, la difesa è sacrosanta. La struttura però deve far sì che ci sia un processo equo, eliminando gli stereotipi“.
Le parole contano, dunque, perché le parole contribuiscono a creare il pensiero, l’attitudine, l’atteggiamento mentale e la cultura. “Certe parole quali “raptus o tempesta emotiva” non dovrebbero mai essere usate quando si parla di violenza di genere perché vengono lette come giustificazioni a tali gesti“, sottolinea Sabrina Pagliani avvocata della Casa delle donne di Bologna. “Certo, leggendo le motivazioni delle sentenza si può comprendere il ragionamento giuridico – e il calcolo della pena – del tribunale ma purtroppo il concetto che passa è un altro e, in un momento storico così delicato questo potrebbe essere molto pericoloso“. Il delitto d’onore, vale la pena ricordarlo, è sparito solo nel 1981 e la violenza sessuale è un delitto contro la persona solo dal 1996. Il riconoscimento della violenza di genere e dei suoi meccanismi, nelle aule dei tribunali richiede ancora molto lavoro di formazione e preparazione specifica. Così come la narrazione fatta dai media è ancora troppo spesso erronea e fuorviante, frutto anche quella di stereotipi e preconcetti culturali tipici di una cultura maschilista.
Anche per l’avvocata Nicoletta Parvis, esperta di casi di violenza contro le donne, termini e parole come quelli appena citati nascondono dei rischi concreti: a partire “dal convalidare una generalizzata aspettativa alla più ampia e automatica concessione di attenuanti e scriminanti di vario genere“. In questo modo, passa un messaggio pericoloso: “L’incapacità soggettiva e perfino occasionale di tollerare la frustrazione, il meccanismo di illusione e disillusione, la gelosia – tutti turbamenti che bisognerebbe essere abituati a fronteggiare sin dall’infanzia – possono arrivare a essere considerati come fonte di attenuazione di responsabilità“. E’ questo che, a livello culturale, diventa molto pericoloso. Senza contare che, in aula, “rischiamo il paradossale effetto di trasformare sistematicamente circostanze senso lato aggravanti in attenuanti“.
Le parole, quindi, contano. Contano perché un tema delicato, complesso, strutturale e drammatico come quello della violenza maschile contro le donne, un fenomeno strutturale e profondamente radicato che richiede un grande sforzo sociale e culturale per essere arginato e superato, va trattato con cura. Anche nelle motivazioni delle sentenze, se non vogliamo entrare nel merito. Senza dimenticare che secondo l’articolo 90 del Codice penale “Gli stati emotivi o passionali non escludono nè diminuiscono l’imputabilità“.
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