Sarah Moon, il sentimento del tempo. Due grandi mostre a Milano

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Noël au Portugal, 1999. © Sarah Moon

Desideri, sentimenti, sogni: esiste qualcosa che ci radichi più fortemente nel presente, qui e ora? E così i ricordi: si cibano del passato certo, ma accadono qui e ora, nel presente, sono il presente.

Ed è il presente di queste esperienze intime e profonde che sa risvegliare e mettere in circolazione con le sue immagni la fotografa francese Sarah Moon, protagonista di una doppia, strepitosa mostra milanese articolata in due sedi, l’Armani Silos di via Bergognone e la Fondazione Sozzani di corso Como. Difficile trovare un miglior vaccino per guarire dalla convinzione che la fotografia sia un mezzo servilmente oggettivo di documentazione della realtà: scoprire l’opera di Sarah Moon significa affrontare un percorso intimo e perturbante verso regioni non molto frequentate di noi stessi.

La francese Marielle Warin, vero nome di Sarah Moon, nacque in Normandia (Vernon, Normandia 1941), da dove fuggì piccolissima con la famiglia di origine ebraica in seguito all’occupazione tedesca, trovando rifugio in Inghilterra. Iniziò a lavorare come modella, diventando poi, nella seconda metà degli anni ’60, fotografa per conto di Cacharel, per la quale girerà anche diversi spot pubblicitari; il suo talento si impose fin da subito: le più importanti riviste pubblicavano i suoi servizi, da Vogue a Harper’s Bazaar, da Marie Claire a Stern, nel 1972 è la prima donna a realizzare il calendario Pirelli, mentre un suo spot vince nel 1979 il leone d’oro per i film pubblicitari a Cannes. Fotografia e video sono le due discipline cui si dedicherà con passione, diventando una delle più importanti artiste dei nostri anni, per la quale l’etichetta di “fotografa di moda”, genere da lei esercitato con risultati eccellenti, suona certamente riduttivo.

Le due mostre milanesi sono ancora più preziose in quanto, allestite direttamente dall’artista, formano un doppio autoritratto in dialogo reciproco, basato sulla contrapposizione del bianco in Sozzani con il nero da Armani. Questi due colori fondanti dell’immaginario fotografico non sono semplicemente la soluzione scenografica ideata per il display delle sale, ma assumono un significato ben più ampio e intenso, di evocazione dell’atmosfera espressiva ed emotiva complessiva delle due esposizioni.

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L’avant-dernière, 2008. © Sarah Moon

Time at work è il titolo della mostra in Sozzani, sulla quale è meglio lasciare la parola all’artista: “è la storia del tempo che passa e cancella. [… ] la storia di queste fotografie prima che scompaiano. È il tempo al lavoro. Per caso ho ritrovato queste immagini in positivo da polaroid che non ho terminato; alcune erano inaspettate, altre solo rovinate, molte sbiadite poco a poco. Le ho raccolte e unite con alcuni lavori recenti.” La scoperta casuale di vecchie polaroids scatena la vis creativa dell’artista, che decide di sovrapporre al lavorìo del tempo il proprio, intervenendo sulle foto con segni, graffi, colori e manipolazioni, in una sorta di operazione alchemica che insegue il desiderio di catturare e forse ammansire il tempo.

Cinque piccole polaroids dove scorgiamo il volto di una ragazza di spalle e (in una sola) di fronte, mentre si tocca con una mano collo e viso per rassicurarsi con il contatto fisico di essere davvero lì, presente a sé stessa, danno l’avvio, come un tema musicale iniziale, al percorso della mostra, che si snoda attraverso visioni metafisiche della campagna toscana, neri uccelli colti nel volo, un parco moscovita sotto la neve, la splendida serie delle 9 Bagnanti (2000) – inedita in Italia -, giardini sospesi in un’atmosfera irreale di ovattato stupore, tra fiori provenienti da un Eden remoto e alberi che vestono maschere sotto le quali vediamo emergere il nostro volto, perché Sarah Moon ci porta a scoprire che tutto quello che ci circonda non è oggettivo, ma viene da noi letto e vissuto attraverso lo specchio del nostro sentire, sognare e desiderare.

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Le masque, 2011. © Sarah Moon

È il nostro sguardo che si posa su un oggetto morto, come il libro che la fotografa non ha voluto realizzare e che troviamo infatti esposto, muto e inutile, un semplice pacchetto avvolto nella carta bianca legata con lo spago – quasi un oggetto concettuale -, nella seconda sala della mostra. Accanto troviamo il video Ou va le blanc (2013), introdotto da due versi del più grande poeta dello struggimento moderno di fronte al misterioso scorrere del tempo che tutto consuma, Charles Baudelare: “Ricorda che il Tempo è un giocatore avido / che vince senza ingannare (L’orologio, dai Fiori del male)”. Mentre vediamo srotolarsi di fronte ai nostri occhi le pagine di questo libro solo desiderato, ecco che i fogli con le fotografie incollate come nei vecchi album di famiglia dei nostri ricordi sprigionano tutto il loro incanto, animandosi nel movimento del video e riprendendo calore e vita.

Al piano inferiore della galleria di corso Como si possono vedere altri due esempi del talento di cineasta di Sarah Moon: Contacts del 1995, un cortometraggio dove la Moon fa scorrere un vero fiume impetuoso di suoi scatti, freneticamente inseguiti più che commentati dalle sue parole, aprendoci uno spiraglio importante sulle ragioni e le forme della sua ispirazione creatrice. There is something about Lilian (2001) è invece un docufilm dedicato a una delle grandi pioniere della fotografia di moda, l’americana Lilian Bassman.

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Coney Island, 2016. © Sarah Moon

From one season to another è invece il titolo della mostra ospitata all’Armani Silos, una grande antologica che attraversa quarant’anni di carriera dove scorrono tutti i grandi temi della Moon e nella quale assistiamo in certe sezioni a un vero trionfo del colore. Ci muoviamo tra struggenti evocazioni di parchi e luoghi di divertimento come Coney Island (2016), colti nel loro abbandono, vuoti di folla e di calore, e animali e artisti circensi lontani dal pubblico, avvolti da una solitudine che trasfigura i loro numeri in una sorta di meditazione; tra nubi e fumi che invadono il cielo, trasformandolo in un quaderno di emozioni, e visioni di città marine attraverso vetri rigati dalla pioggia, che ci fanno vedere non solo il paesaggio ma, allo stesso tempo, il nostro sguardo e la nostra presenza dentro quel paesaggio.

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Armani Silos, Sarah Moon, From one season to another. Courtesy of Giorgio Armani

Tutto quello che ci circonda in Sarah Moon ci riguarda e ci chiama in causa, come le enormi fotografie a colori di fiori e uccelli che ci avvolgono in una grande sala che fa da cerniera a metà percorso: monumentali creature misteriose, provenienti da un mondo diverso dal nostro, nel quale il concetto stesso di tempo non ha forse senso (comunque sia, non ha certamente il nostro senso), eppure nelle quali possiamo specchiare i nostri sentimenti e istinti, riscoprendo quella parte vitale e preumana che ci accomuna alle altre creature che abitano con noi il mondo nel quale viviamo. In questo canto dei colori troviamo anche il nero, non come ombra che si oppone al chiarore, al contrario come colore costruttivo, che dà sostanza e corpo alle immagini, opponendo un fermo argine alla luce che rischia di bruciare tutte le forme nel suo splendore accecante.

E l’arte di Sarah Moon, con il suo coraggio di guardare in faccia la realtà senza infiocchettare con consolazioni di maniera il tragico dell’esistenza, ci suggerisce che probabilmente il tempo che tutto travolge e consuma non è l’unica risposta e l’unica nostra realtà, perché tutto, come lo yin (nero) e lo yang (bianco) dell’antichissima sapienza cinese, è “just a balance mixing bright and dark.”

Merci madame Moon.

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Le pavot, 1997. © Sarah Moon