“Sa, mio figlio passa ore davanti ai videogiochi spara-spara, ci si rifugia quasi, mi dice di sentirne il bisogno e di non poterne fare a meno, neppure in vacanza… non riesce a staccarsene. Ma io come madre cosa devo fare?”.
“Mi sono lasciata con il mio fidanzato… ma non riesco a smettere di controllare il suo profilo Facebook, di leggere i suoi messaggi, guardare le sue foto, cercare di capire dov’è, con chi è, cosa pensa, se mi pensa…. A volte mi sembra di poter leggere nei suoi messaggi qualche riferimento a noi, alla nostra storia, come se la complicità in qualche modo ci fosse ancora, come se scrivesse a me e per me… “.
E ancora: “Ho controllato il profilo Youtube di mio figlio e ci ho visto un video che non mi aspettavo… riprendeva un amico con una pistola giocattolo… e rideva di gusto mentre l’amico faceva l’elenco delle persone che avrebbe volentieri fatto fuori… un elenco che non sto a ripeterle, pieno di stereotipi e pregiudizi… ”.
Abbiamo parlato a lungo di Internet su questo blog, evidenziando come la sua democratizzazione, come la definirebbe Dominique Cardon, e la connettività globale stiano modellando le nostre vite e le nostre personalità: come lavoriamo, apprendiamo, viaggiamo, acquistiamo, ma anche come pensiamo, ricordiamo, ci esprimiamo, plasmiamo la nostra individualità e ci relazioniamo agli altri. Cambiano le comunicazioni e le relazioni, e si cerca aiuto in modo diverso: Internet rappresenta oggi la forma più immediata per ottenere informazioni, suggerimenti e consigli. Una simile rivoluzione non poteva non investire e coinvolgere anche la psicologia.
Da anni Twitter, Facebook, SecondLife e videogiochi sono entrati con forza nella stanza del terapeuta, impregnando i racconti dei pazienti – le parole con cui abbiamo iniziato sono tratte da stralci di sedute – e costringendo gli psicologi a confrontarsi con nuove domande (“Ma è normale che mia figlia passi ore su Internet e che si faccia tutti questi selfie?”, “Ho letto su internet che esiste una nuova App per l’ansia, lei la conosce?”), nuovi meccanismi di mantenimento della sofferenza (pensiamo alla fidanzata abbandonata che rimugina sulle foto e i messaggi postati sui social dall’ex partner), nuove forme di violenza (dall’hate speech all’adescamento online, dal cyberbullismo al sexting), nuove condizioni di disagio (stati di sovraccarico informativo, disinibizione della rabbia) e nuovi disturbi (come Internet addiction, gioco d’azzardo online).
Se dieci anni fa, per la prima volta, ascoltavo un’adolescente raccontare del disperato tentativo di elaborare il dolore di un lutto facendo “rivivere” il fidanzato scomparso su SecondLife, oggi non c’è sospetto di tradimento che non induca al sistematico controllo del cellulare dell’altro, né separazione che non debba confrontarsi con la possibilità di continuare a “sorvegliare” l’altro sui social network. Se in alcuni casi l’uso dei social costituisce un fattore di mantenimento delle difficoltà psicologiche, in altri rappresenta una risorsa: raccontare sul web la propria sofferenza – pensiamo a chi su Facebook condivide un dolore, una malattia, un lutto – rappresenta per molti una nuova modalità per ricercare e ricevere conforto.
Le tecnologie aprono nuovi canali di comunicazione e mettono a disposizione dello psicologo molteplici strumenti per la cura, a partire dall’e-therapy, ossia l’interazione online tra professionisti e clienti. Se l’American Psychological Association ha creato la Taskforce per monitorare le consultazioni psicologiche a distanza e fornire raccomandazioni ai clinici, dal 2013 anche il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi in Italia e diversi Ordini degli Psicologi regionali, tra cui quello della Lombardia, hanno sollecitato la creazione di gruppi di riflessione e diffuso interessanti linee guida per l’utilizzo di Skype, sms, chat e social network nell’attività clinica.
Questi nuovi canali rappresentano in molti casi una porta di ingresso, il luogo per un primo incontro con uno psicologo, per una prima domanda, e possono rivelarsi propedeutici agli incontri in studio. Nonostante i film di Woody Allen o serie come “In treatment” negli ultimi anni abbiano contribuito ad avvicinare la professione al grande pubblico, molte persone, seppur sofferenti, sono trattenute dal pregiudizio e dal timore di una stigmatizzazione sociale, ancora estremamente diffusi in Italia. Per alcune fasce di popolazione, poi, primi tra tutti gli adolescenti, la cui familiarità con lo strumento informatico è nota e per cui Internet rappresenta il canale di comunicazione preferito e privilegiato, il mondo online offre l’opportunità per un primo riconoscimento della propria sofferenza psicologica e un avvicinamento alla cura. Ferma restando l’importanza dell’incontro vis a vis nella relazione terapeutica, è necessario riconoscere che alcune persone difficilmente, almeno all’inizio, seguirebbero percorsi più “tradizionali”.
Oltre all’e-therapy, uno psicologo può decidere oggi di integrare (e sempre più dovrà farlo) nella propria pratica professionale strumenti online e realtà virtuale. App, serious games, realtà aumentata e virtuale possono essere di supporto e di grande utilità nella cura di diversi disturbi psichici, basti pensare all’utilizzo della tecnologia VR per la cura di fobie specifiche come quella del sangue o dell’altezza. La ricerca in questo settore – soprattutto in ambito cognitivo comportamentale – è estremamente ricca ed evolve rapidamente, nel tentativo di rispondere alle tante domande che questa rivoluzione solleva in psicologia e comprendere “what works for whom?”: per chi (maschi, femmine, di quale età, con quali disturbi e livelli sintomatologici, che abbiano già ricevuto sostegno di altro tipo o che non abbiano mai chiesto aiuto vis a vis, etc.) e per quali disturbi psicologici possono funzionare una terapia online o una App? Come integrare questi strumenti negli attuali percorsi di psicoterapia? Come si modifica la relazione terapeutica?
Con approccio scientifico, con le giuste domande e la necessaria attenzione ai risvolti etici, potremo capire come integrare al meglio questi strumenti nella pratica clinica quotidiana. Senza cedere a facili entusiasmi davanti all’ennesima App che prometta di far sparire l’ansia, ma neppure opponendo resistenza e rinchiudendo la psicologia “dietro la porta chiusa” degli studi privati. “La vita può essere capita solo all’indietro ma va vissuta in avanti” diceva Kierkegaard. Lo stesso deve fare la psicologia.